martedì 11 novembre 2008

I pensieri invisibili - Catalogo 3 -

Metto delle parole sul tavolo; e lascio
che se ne servano, che le taglino a fette, sillaba per
sillaba, per portarle alla bocca – dove le parole 
si uniscono di nuovo, per cadere sul tavolo.

Così, conversiamo gli uni con gli altri. Scambiamo parole; 
e rubiamo altre parole, quando non
le abbiamo; e cediamo parole, quando sappiamo che sono
in più. In tutte le conversazioni avanzano le parole.

Ma ci sono le parole che restano sul tavolo, quando
ce ne andiamo via. Diventano fredde, di notte; se una finestra
si apre, il vento le soffia per terra. Il giorno dopo,
la donna delle pulizie le spazzerà nei rifiuti.

Perciò, quando me ne vado, controllo se sono rimaste
parole sul tavolo; e le metto in tasca, senza che nessuno
se ne accorga. Poi, le conservo nel cassetto della poesia. 
Un giorno, queste parole serviranno a qualcosa.
(Nuno Jùdice)  

Lungimirante esempio di oralità organizzata e compostaggio di rifiuti alfabetici.
Utilizzabile anche oltre le mura domestiche e codice di difesa dalla presunzione di proprietà privata.

martedì 4 novembre 2008

I pensieri invisibili - Catalogo 2-

Se io lotto in un luogo preciso contro la povertà, non ho bisogno di un programma globale contro la povertà. Io mi impegno nello specifico e metto tra parentesi la globalità[…]
Voglio dire: che si parli di un ristorante o un altro luogo da vivere, dobbiamo creare un luogo che sia altrettanto abitabile dalle persone. Distruggerlo non è sufficiente, in ciò è la sfida grande: viene chiesta più energia per creare alternative che per combattere l’esistente.
La rabbia è giusta, legittima, non dico che sia ignobile, ma la rabbia non è sufficiente.

(M. Benasayag)

Scomodo esempio di pensiero positivo (mi impegno, dobbiamo creare, è la sfida, viene chiesta, è giusta) che sfida i luoghi comuni (di tutti) e sollecita a vivere non di solo pane, non di sole deleghe, non di sole lacrime. Quando il futuro si chiama presente, quando noi siamo io, le grammatiche si possono riscrivere.

domenica 26 ottobre 2008

I pensieri invisibili - Catalogo 1 -

Vorrei rassicurare tutti. Siamo tranquilli. C’è un preciso impegno della maggioranza e nei documenti ufficiali la scuola è stata indicata come una priorità. Ho chiesto risorse. E le risorse ci sono […] Il Presidente si è impegnato nel garantire le risorse necessarie per lanciare il sistema educativo a tutti i livelli […]. 
(Letizia Moratti, ministro dell’Istruzione nel secondo governo Berlusconi)

Esempio di discorso comune in cui il ricorrere di parole piene (rassicurare, tutti, tranquilli, impegno, risorse, priorità) nasconde l'invisibilità del pensiero e mostra l'astuzia dello scopo.   

Nel campo del sapere è la scuola lo strumento che dovrebbe compensare e diminuire la disuguaglianza, eppure già nella scuola vediamo costruirsi una disuguaglianza drammatica: il titolo di studio, chi ce l’ha è a posto e chi non ce l’ha è fuori. Vedo la disuguaglianza come un pericolo che ci riguarda tutti: come si può affrontare? […] Io non credo che si possa insegnare a pensare al resto del mondo, ma pensare a se stessi tutti insieme agli altri è l’unico modo per ricostituire i cosiddetti i cosiddetti valori politici, che non si ricostituiscono certo con le prediche. […] Vorrei vedere degli esempi perché è dagli esempi che può nascere qualcosa. 
(Vittorio Foa)

Esempio di riflessione rara e preziosa in cui parole faticose (strumento, disuguaglianza, drammatica, fuori, ricostituire) mostrano la generosità dell'obiettivo e l'invisibilità dei fatti che dovrebbero seguire. 

domenica 21 settembre 2008

Mani di fata

[…]
Al pane e all’acqua pure rassomigliano,

al frumento, ai paesi della luna,
al profilo della mandorla, al pesce selvaggio
che palpita argenteo
sulla strada
delle sorgenti.
[P. Neruda, Ode alle sue mani, Passigli]

La rivista cui era abbonata mia madre era un simbolo d’irraggiungibilità.
Sognavo e tentavo di ricamare alla maniera di, ma non riuscivo. Non sarei mai riuscita. Impiegai molto tempo prima che accettassi l’idea che non avrei primeggiato in quella arte che mi avrebbe resa ben accetta ai suoi occhi.
Anche mio padre aveva un affetto di carta. Aspettava ogni fine mese l’arrivo di un foglio di viaggi che gli avrebbe raccontato di posti mai visti e che lo avrebbe trasportato in scenari improponibili rispetto a quelli che lui frequentava. A dire il vero, non so neanche quanto abbia letto realmente quelle pagine, non l’ho mai visto seduto assorto nella lettura, certo era affascinato dalle mille fotografie esotiche e inusuali per l’epoca che ogni tanto ci mostrava o citava durante un pranzo o una discussione sulle nostre conoscenze geografiche. Peraltro, non amava guidare né viaggiare davvero.
Ciascuno di loro aveva insomma le sue immagini del cuore, altri luoghi per papà, altre mani per la mamma. Era l’altrove di una generazione in attesa. Era un modo di lasciare la guerra e di conoscere le ricchezze della pace.
Fino a un certo punto ho pensato che quei sogni fossero anche i miei, che le mani delle fate fossero proprio quelle capaci di abbellire le case e che i lillipuziani fossero a portata di posta.
Invece un giorno, lasciata la zavorra dell’indotto, credo di aver capito.
Di fata sono quelle mani che lavano i corpi immobili nella malattia quando i parenti se ne vanno. Di fata è la mano che sostiene un vecchio sull’autobus, che allaccia una stringa altrui. Di fata sono le mani di chi accarezza un cane e abbraccia per primo, di chi taglia le unghie a bambini di uno o cento anni, di chi disinfetta un dolore.
Di chi prende la tua tra le sue e sta zitto senza giudicare.
Le mani di fata sono mani assolute, senza faccia e senza nome. Mani improbabili, dunque, senza ricercatezza e pretese.
Mani di fata sono quelle di mia nonna a fine giornata, abbandonate in grembo come gusci di noce vuoti per il dispiacere di dover aspettare il domani per agire e aiutare.
Queste sono le mani di fata che ho voglia di ricordare e di incontrare.

lunedì 8 settembre 2008

Oltre

Se noi pensiamo ad una società molto complessa, è una società dove c'è molta libertà ma anche molto disordine. 
Allora, se vogliamo rispettare la complessità senza la coercizione, l'unica cosa è il sentimento di comunità e di fraternità.
[E. Morin, Educare gli educatori. Una riforma del pensiero per la democrazia cognitiva, EDUP 2008]

Si dice che la vita sia fatta di incontri e di occasioni. Tanto basta per cambiare l’ordine e il corso della nostra camminata sulla terra. Tanto basta anche per condizionare le nostre idee e il nostro modo di pensare e agire.
Se in un pronto soccorso riceviamo cure adeguate che ci salvano la vita, saremo pronti a elogiare i medici del luogo e di quell’ospedale in particolare. Se, al contrario, la diagnosi e la cura non sortiranno nessun beneficio, passeremo dalla parte di coloro che denigrano, assieme alle cure ricevute, anche l’intera struttura e i suoi addetti.
Se, da piccoli, presumiamo di avere subito le angherie o, magari, le inefficienze degli insegnanti, sarà facile afferrare la prima pietra per scagliarla contro una categoria che disprezziamo e consideriamo insignificante e forse dannosa.
Se, invece, i nostri figli tornano da scuola soddisfatti e lo sono altrettanto di andarci di nuovo il giorno dopo, elogiamo maestre e professori come portatori sani del sapere.
Si potrebbe continuare all’infinito. Anche l’idea di maternità e paternità che abbiamo sono condizionate dalla nostra esperienza. Per non parlare poi del nostro rapporto con la giustizia o con il sacro.
Questo accade nel quotidiano, nel privato.
Ma dello scarsa correttezza del nostro comportamento non ci rendiamo conto fintanto che essa non diventa metro e guida del nostro agire pubblico e quindi politico.
Di più. Se non ci rendiamo conto che questo atteggiamento oggi è diventato politico, che “fa” politica, non saremo in grado di cogliere la differenza che passa tra un ideale, un progetto per realizzarlo e una semplice esigenza di rimuovere, promuovere, difendere, ri-vendicare ancora una volta noi stessi e il nostro vissuto.
Oggi, le scelte del paese sembrano essere ispirate soprattutto a questa angusta visione della società e prima ancora della vita, angusta perché in balia di ciò che capita a me, che è capitato al mio vicino, che accadde ai miei genitori, che potrebbe accade ai miei figli, e che, quindi, è da temere, da combattere, da evitare.
Quale che sia il bene pubblico, esso non passa necessariamente dalle nostre grandi o piccole esigenze, dalle nostre limitate esperienze. Ognuno ha le proprie e ha gli stessi diritti di tutti in nome di queste. Non di più, non di meno.
Dunque non si può governare in nome degli esercizi quotidiani compiuti, come se l’altrui fosse il nostro e gli altri fossero obbligati a essere tanti io.
In politica ciò che dovrebbe contare è piuttosto quanto si è disposti a perdere l’esperienza di sé per diventare esempio condivisibile dalla maggior parte dei cittadini.

mercoledì 27 agosto 2008

Riciclare la vita

Dedicai l’intero pomeriggio a radunare le foglie, trasferendole sulla carriola e portandole poi nello stabilimento balneare dove dovevano essere bruciate per scaldare l’acqua destinata alla mia strofinata serale. 
[…] Il giardino perfettamente pulito sembrava un tappeto di feltro ricoperto di muschio con morbide ondulazioni, mentre nuvole gonfie galleggiavano sullo stagno.
Poi si alzò il vento.
Nel giro di pochi secondi il campo fu ricoperto, proprio ricoperto di foglie.[…] Per rifare, al contrario il mio lavoro, ci vollero non più di una trentina di secondi. […] Mi domandai: se una foresta viene spazzata e nessuno lo vede, è mai stata spazzata?
[L. Rafkin, Lo sporco degli altri, Feltrinelli 2000]

Dove finiranno i pensieri consumati e superati dagli eventi (le paure, i timori e le speranze per il futuro, quando ormai il futuro ha preso il nome di passato), i pensieri diventati o sempre stati inutili ma ritenuti fisiologici e necessari (i dubbi dell’amore, le insicurezze del proprio corpo, le recriminazioni per i soprusi subiti), i pensieri liberi di pascolare in un pomeriggio estivo senza obblighi di lavoro?
Si mescoleranno ai pensieri frantumati ma anch’essi superati di chi ha assistito un morente, di chi ha atteso un marito o un figlio, di chi conosce la malattia?
Tutti insieme nella stessa infernal-paradisiaca discarica dei pensieri?
Ci sarà un riciclaggio, un compost pensieroso?
Forse c’è, e noi, ogni volta che trepidiamo per un amore o vorremmo scongiurare il male che temiamo, usiamo pensieri altrui, rigenerati dalla sosta nel grande deposito dei pensieri scaduti e pronti ad accogliere anche il nostro non detto.
Forse è anche possibile regalarli, i pensieri fuori servizio, come abiti smessi ma ancora in buono stato, come un libro amato e affidato alle cure di altri occhi, come un dolce superfluo e indispensabile per chi lo riceve. Come dire alla propria figlia, anch’io avevo paura del buio quand’ero bambina, e poi la paura è passata ma l’ho tenuta da parte per ragalartela quando fosse stato il momento e dimostrarti, con la polvere degli anni che si è depositata su mamma e paura, che poi anche pensieri così passano, con la pazienza e il bene.
Sono sicura, i pensieri si possono riciclare e anche regalare. Obbligo umano e legge divina lo esigono.
Pensate il business, altrimenti!

sabato 2 agosto 2008

Prima di

R. Sappiamo di essere il nostro corpo, ma pensiamo di averlo , come se la coscienza avesse un altro ordine di esistenza, stesse nel corpo come in una casa, lumaca nel guscio. Dirci: il corpo è la prima cosa che ho e il corpo sono io, non fa esattamente lo stesso. Essere e avere non sono lo stesso.
[M. Freire e R. Rossanda, La perdita, Bollati Boringhieri 2008]

Un uomo si sente dire la diagnosi del male incurabile che l’ha colpito.
E dopo?
Al medico non spetta altro compito.
La moglie non osa dire nulla poiché nulla ha mai osato.
I figli hanno sempre obbedito senza il permesso di pensare.
E l’uomo resta solo a imprecare sulla disgrazia, sulla maledetta sfortuna che gli è capitata, proprio adesso.
C’è stato un tempo in cui l’uomo dettava la legge della sua casa, sorrideva devota la moglie, proni i figli, alienati dal fuoco di giovinezza.
E la parola non era che una. La sua, che non ne permetteva un’altra dopo.
Adesso è tardi. Demente la moglie, assassini i figli.
Le parole del dopo hanno bisogno di una vita prima.

giovedì 24 luglio 2008

Bolle e zuppe

Ho deciso che il mio colore preferito è l’azzurro dei suoi occhi, con una punta di malva chiaro come nel pareo che mi ha regalato, qualche anno fa, alle Seychelles. Mi vestirò di malva chiaro, quando abbandonerò il verde-prigione di questa giungla.
[I. Betancourt, Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli. Con la risposta di Mélanie e Lorenzo Delloye-Betancourt, Prefazione di E. Wiesel, Garzanti 2008]

Quando ci si lascia per un po’ è necessaria una riconciliazione. Non per obbligo, non per imposizione altrui, ma per il piacere di farlo.
La fase della riconciliazione è la più dolce che io conosca. È la soluzione che ha vinto la difficoltà, è la convalescenza dopo la malattia, è il silenzio che sorride benevolo al rumore.
Bisogna volerlo, certo, bisogna coltivarlo già nell’irrequietezza della urgenza che travolge le più tenaci speranze e i più intensi desideri. Quando ci si abbandona al fluire degli eventi senza opporre resistenza, senza trovare in se stessi il coraggio di immaginare altri cieli, di ricordare altri volti.
La riconciliazione è come uscire da una bolla, di bene o di male non importa, nella quale si rischiava di annegare e annegare in una bolla è come morire senza malattie, feriti dal nulla e uccisi dai fantasmi.
Uscire dalla bolla ed entrare nel territorio della riconciliazione non è impossibile neppure nelle situazioni più difficili, anche quando la bolla è più grande del pensiero che non sapeva pensarla.
Basta un colore, un sapore, il loro ricordo in un fermo immagine trovato per caso e volontà nel film che ci trascina via e la bolla può diventare la zuppa calda della memoria, il ragù dell’amicizia, il guardaroba dei vestiti buoni per l’anima.
La riconciliazione porta in dote un passato nuovo e una speranza non scontata.
Vale per le grandi storie e vale per i piccoli blog anonimi ma non estranei alla vita.
Vale per tutti quelli che preferiscono le zuppe alle bolle.

mercoledì 14 maggio 2008

E poi arriva l'ultimo

litigio con un automobilista
vino comprato
sì scambiato
viaggio programmato
film visto
oggetto riparato
pranzo insieme
pigiama indossato
bacio notturno
libro regalato
giorno prima della partenza

Beati gli ultimi che diverranno per sempre i primi

domenica 4 maggio 2008

random

“Beve qualcosa?”
“Un succo di frutta.”
“Che gusto?”
“Non ho tempo di star lì anche pensare al gusto del succo di frutta.”
“Pera, pesca, albicocca?”
“Non posso fare tutto io. La delego. Si mantenga su uno standard di mercato.”
[W. Fontana, L’uomo di marketing e la variante limone, Bompiani 2001]

“Non smettere di inseguire i tuoi sogni, ma non seguire una strada. Creala”.
Questo recita, più o meno, una pubblicità recente.
Ora, non so se lo scopo dello spot sia davvero quello di fare acquistare automobili (il prodotto reclamizzato), visto che nessuno dei patentati che conosco (e mi azzardo a dire anche di quelli che non conosco…) potrebbe comprare un’utilitaria, perché di questo tipo di mezzo si tratta, per la suggestione di potersi trasformare grazie ad essa in un urbanista moderno o in un novello pifferaio di Hammelin con la responsabilità di far fare una brutta fine agli altri automobilisti.
Peraltro, nel mondo della pubblicità life is now perché tu hai avuto sempre l’energia di un leader e io valgo, e se in una famiglia…è sempre festa una ragione ci sarà.
Forse gli slogan non servono affatto a vendere i prodotti reclamizzati, ma a spacciare parole che senza una motivazione commerciale non ci verrebbero mai dette. Ci sono frasi, infatti, e concetti soprattutto, che non avrebbero più diritto di cittadinanza nella nostra società, perché nessuno sano di mente se ne andrebbe in giro dicendo a un altro che, visto il lavoro che fai e come lo fai, meriti un assistente personale. Di solito è già tanto se ti danno uno stipendio.
Pubblicità come favole, insomma, e anche campionari di espressioni gratificanti che ci permettono di vivere meglio, nella nostra unicità sublimata, le frustrazioni quotidiane che proprio il consumismo genera.
Il figlio del mio vicino di casa, ad esempio, se ne va in giro con scarpe di sottomarche sconosciute e un giubbotto no logo, e accompagna la madre a un discount dove schiavizzano i dipendenti ma promettono di venderti sottocosto anche un rene.
Ecco, questo infelice giovinetto, cui devono mancare molto le storie che da bambino gli tenevano compagnia, e non solo quelle, ogni mattina, quando percorre quei cinquecento metri che lo separano dalla fermata dell’autobus, cammina random (si imparano anche le lingue con la pubblicità…) in mezzo alla strada, un passo sulla striscia continua della mezzeria, un passo saltellante ora qui ora lì in mezzo all’una o all’altra carreggiata.
Perché seguire un banale marciapiede, creato per pedoni che hanno rinunciato ai propri sogni?
È tutto l’inverno che lo incontro: esco lentamente con la macchina dal cancello e me lo trovo davanti intento a creare la sua strada; lo seguo ben attenta a non superarlo perché non so mai dove lo porterà il saltello successivo e potrei investire lui e i suoi sogni; sono diventata in un certo senso il suo angelo custode, rallento, seguo la sua andatura, gli guardo le spalle e se arriva qualche altra automobile deve fare i conti con me, che vigilo su quello adolescente appiedato che sta creando il suo futuro al ritmo del suo MP3, senza seguire quelle castranti e inibitorie norme e orme che altri hanno determinato e percorso.
È stato un inverno faticoso, questo, al lavoro anche malata per paura che qualche scellerato, non conoscendo la reale mission del ragazzo, facesse strage di nobili ideali ancora da realizzare.
Pero fortuna le scuole sono quasi finite.
Con gli spot dell’autunno cercherò di organizzarmi meglio.

martedì 8 aprile 2008

Per esempio uno

Il degrado del linguaggio non è un problema di parole, ma deriva da un comportamento pratico, cioè dall’esempio. Mi colpisce il fatto che dell’esempio non si parla mai, anzi non esiste come categoria di giudizio del proprio e dell’altrui comportamento: eppure sappiamo che tutto viene da lì.
L’esempio non nasce dalle prediche, ma dalla vita, quella che si svolge nelle scuole, negli ospedali, negli eserciti, ovunque si stia insieme.
[V. Foa, F. Montevecchi, Le parole della politica, Einaudi 2008]

Per Chiara e i suoi sogni. Per la sua voglia di studiare la storia e di non fare i gelati. Per i primi biscotti che mi ha regalato e i quiz della patente preparati sul divano. Per quando si è sentita una principessa rimbalzosa e si è finalmente addormentata.
Per Arianna e le sue scarpe scozzesi e il suo sorriso così profondo che non riesce ad arrivare in superficie. Per la sua famiglia e la sua mamma di cui un giorno racconterà la storia perché le parole non le hanno mai fatto paura e stanno solo aspettando di scendere alla fermata giusta.
Per Francesca e la sua voglia di spiegare l’arte. Per gli errori di ortografia che sono la sua passione insieme ai brillocchi e perché sa asciugare il pavimento.
Per Dino e il suo liceo avventuroso e gioioso che faceva arrabbiare i benpensanti e i deboli di cuore. Per un tema e una dedica. Per la tenerezza verso il suo amore che è la più dolce e la più bella.
Per Alessandra e la paura di rimanere sola. Per i funghi del suo papà che sanno di mani e di bosco. Per i suoi regali di Natale, protettivi e caldi come quelli di una figlia adulta.
Per Camilla e la sua testa china nel prendere gli appunti durante le lezioni di letteratura. Per le sue risposte belle e sapienti che io non avrei saputo dare. Per quello che non ha mai voluto dire.
Per Ilaria, per la sua rabbia e i suoi occhiacci di fuoco. Per il suo pianto senza lacrime. Per la sua intelligenza al limone. Per la facoltà che ha scelto e le crespelle che sanno di mamma e di Natale.
Per Claudia che c’è da lontano. Per quando gli occhi le si accendono di vita, lei che pensa troppo e qualche volta si chiude in un guscio di nostalgia.
Per Andrea e Chiara, insieme contro le tristezze.
Per Cristina, che tanti anni fa mi ha regalato “La fabbrica di cioccolato” e si è firmata ‘Cristina la pazza’. Per i suoi capelli che rimarranno crespi come i suoi pensieri, lo so.
Per Francesca, zitta e pensierosa. Per la sua lotta contro quello per il quale gli altri lottano, ma sempre in silenzio per non disturbare il mondo.
Per Nicola e il suo parlare lento, il suo ragionare misurato come quando traduceva le frasi di latino. Per i suoi pesci che gli spiegano perché e dove.
Per Laura, per una telefonata lunga due ore e una finestra di troppo. Per i libri della riconciliazione.
Per Andrea e i Persiani. Perché adesso è grande ma lo è sempre stato.
Per Stefano e le telefonate stupide. Per la sua mamma.
Per Randa, per quando era un uovo. Per la corrispondenza d’amorosi sensi. Per le idee che non ha ancora avuto e le parole che ha già.
Per Sara ubriaca tutte le sere e le telefonate al mattino per svegliarla. Per un sms e un concerto punk.
Per Serena che lo è anche di fatto. Per il suo Alessandro Magno, amore per sempre, e per i suoi temi senza tormento eppure bellissimi.
Per Linda che tormentata lo è sempre stata. Per la sua grafia veloce e oscura e la sua scrittura sconfinata. Per i suoi non so e per un libro di Simenon.
Per Simone e le sue vecchiette che stanno diventando bambini. Per quel giorno alla stazione di Como.
Per Vera e il suo pensiero sulle farfalle.

martedì 1 aprile 2008

Fuoco, fuochino,fuoco

Prometeo Dal fissare il destin distolsi gli uomini.
Coro Quale farmaco a tal morbo trovasti?
Prometeo Nei loro petti albergai cieche speranze.
Coro Gran beneficio fu questo per gli uomini.
Prometeo Ed oltre a questo, il fuoco a lor donai
Coro Il fuoco, occhio di fiamma, ora posseggono?
Prometeo E molte arti dal fuoco apprenderanno
[Eschilo, Prometeo legato, in Tragedietrad. di E. Romagnoli, Zanichelli 1921]

Sono andata a rileggermi il mito di Prometeo.
Non potevo farne a meno dopo aver sentito per caso la presentazione del libro di Massimo Recalcati, “Elogio dell’inconscio”, appena uscito per i tipi Mondadori.
È stato un conforto sentire una psicanalista presente raccontare con molta tranquillità quanto sia importante “mantenere” accesa una dose quotidiana di infelicità, garanzia di fecondità creativa e prova di vita vera.
Il pensiero è volato alle ripetute, quotidiane invocazioni al diritto alla felicità, occasioni più che altro sfruttate da case farmaceutiche, medici, politici, e imprenditori (in disordine di importanza).
E poi è arrivata la citazione su Prometeo, che ruba il fuoco a Zeus e lo dà ai mortali.
Zeus lo considera un furto, gli uomini un dono.
Prometeo non si schermisce e sa di aver rubato e offerto qualcosa che è garanzia di una vita illuminata (non solo in senso letterale). Il derubato e i donati, d’altro canto, non hanno mai pensato di avere perso o guadagnato una piccola cosa. Il fuoco è fuoco per tutti i protagonisti della vicenda. Nessuna alterazione del nome – fuochino - o dell’idea – piccola perdita o minimo progresso -.
Tutti, insomma, riconoscono al ladro-benefattore l’onore delle armi nell’uso del nome primitivo, fuoco, che trascina con sé grave offesa o benefici luminosi.
Dalla sua punizione, l’eroe stesso impara che i nomi sono cose che costano la rabbia furiosa e vendicativa di qualcuno, o gratificano con il ricordo imperituro degli altri.
Chi sa e vuole condurre gli altri al sapere, insomma, affronta e impone la nuda verità del nome, non lo mitiga e non lo esalta.
Per molte ragioni quello di Prometeo può sembrare un atto politico e fu politica, certo, la consapevolezza dell’atto, se non altro perchè politica è ogni azione che porti a una maggiore coscienza di chi si è e di ciò che si intende fare per gli altri (il fare per sé non è politico, dato che la politica è, si direbbe a scuola, uno dei tanti pluralia tantum, nomi soltanto e idealmente plurali).
Politica è, dunque, anche la sobrietà, linguistica prima di tutto,che dovrebbe alimentare i nostri giorni, luoghi sempre più abusati di eccessi o riduzionismi, spie della dissimulazione e della presunta felicità. Da guarire con pastigliette, aiutini e spintarelle.

mercoledì 26 marzo 2008

Punto e a capo

"Una sola grazia chiedo a Dio: aver comandato a Waterloo la mia ultima battaglia. Dover sempre combattere è un destino terribile. In guerra, gridandogli ordini, mi dimentico dei sentimenti. Cessato il fuoco, comincia l’angoscia. 
L’anima e la ragione si usurano, impossibile pensare alla gloria. Nel momento della vittoria, mi smarrisco. Mi creda dolce amica, con l’eccezione di una battaglia perduta, la più grande disgrazia che possa capitare agli uomini è una battaglia vinta. Io spero di non dover combattere. Mai più”. 
Così confidava Arthur Wellesley, il primo duca di Wellington, a Lady Shelley, trenta giorni dopo la battaglia decisiva vinta contro l’imperatore Napoleone Bonaparte a Waterloo, il 18 giugno 1815.
[G. Riotta, Principe delle nuvole, Rizzoli 1997]

Sui giornali di questi giorni compare la foto sorridente di un generale statunitense, uno dei più importanti, il comandante delle forze USA a Bagdad.
Il numero dei riconoscimenti, dei distintivi, delle decorazioni appuntati sul petto è straordinario, tutti per meriti di comando, militari, di addestramento, atti di coraggio,eccellenze varie. Una medaglia è per “operazioni umanitarie”.
Solo in ambito militare è uso mostrare i riconoscimenti.
In fondo, però, tutti apparteniamo a un corpo, a un sistema, a un noi in cui stiamo e di cui siamo rappresentanti.
Vorrei vedere padri e madri con tante stellette quanti sono gli atti di coraggio che li portano a crescere figli e sogni senza deludere gli uni e gli altri.
Ho incontrato magistrati e insegnanti cui un aureo distintivo si dovrebbe conferire ogni volta che aiutano a pensare al giusto e al dubbio.
Conosco medici che sanno leggere corpi e anime per mestiere e per passione, senza mostrare stelle comete sul petto.
I preti, invece, sono diversi tra loro per colore (e quindi anche per meriti?).
Preti e soldati, insomma, portano visibili i segni dei ruoli, della carriera, del valore.
Gli altri no. I nostri noi no.
In fondo se ne capisce la ragione pensando che il quotidiano per noi si replica con tale implicita necessità che rischierebbe più di smentire che di confermare le conquiste del giorno prima. Dovrebbe valere per tutti.
Per parte mia, continuo a preferire una società di lettere minuscole utili al senso comune che può fare a meno di maiuscoli eroismi.

mercoledì 12 marzo 2008

Teorema O'Hara

Imparare a parlare
Camminare da soli
Arriva Natale
Il primo giorno di scuola
Contare i giorni che separano dalla fine della scuola
Giocare a pallone fino a tardi
Aspettare la figurina che completi l’album
Una festa di compleanno per la prima volta con le femmine
L’attesa del primo bacio di una femmina della festa
Promettere per il motorino
L’esito delle partite e del campionato
La vacanza senza genitori
Trovare i soldi per le sigarette
Augurarsi che i prof muoiano
Finire le superiori
La patente (anche prima di finire le superiori)
Votare
Credere che il tuo voto decida
Avere un’auto per portarci le ragazze
Laurearsi
Trovare lavoro
L’amore
Comprare casa
Vivere con il tuo amore
I figli
Che siano sani
Sentirsi chiamare papà
Un aumento di stipendio
Ritagliarsi una serata a due
Sperare che l’inflazione non si mangi l’aumento e il mutuo la tua vita
Dormire una notte intera senza figli nel lettone
Non litigare per i parenti
Trovare il tempo per i regali di Natale
Tornare alla vacanza in albergo
Dormire in spiaggia
Che l’auto cammini fino alle promozioni dell’autunno
Temere che tua moglie sia di nuovo incinta
Immaginare il grande campione di basket che sarà tuo figlio
Il primo pretendente di tua figlia
Prima o poi si laureeranno (meglio prima)
Che trovino un lavoro
E duri
Prima o poi se ne andranno (meglio poi)
Tornare a essere in due
E poi avere dei nipoti
Distillare il tempo alla pensione
Che la salute regga
Leggere il giornale la mattina
Andare in vacanza a marzo e ottobre
Volersi bene
Non rimanere soli
Prima a me che a mia moglie
Illudersi che gli esami clinici siano sbagliati
Trovare posto nell’ospedale giusto
Sperare di svegliarsi dopo l’intervento
Apprezzare anche le giornate di pioggia, purchè giornate siano
Non soffrire troppo
Come nel sonno

Domani è un altro giorno

domenica 2 marzo 2008

Ciao

...
Come ti trovi?
Mi trovo.
Ma come?
Come.
...

mercoledì 20 febbraio 2008

A proposito

Non avevo proprio intenzione di scrivere di politica in questi giorni.
Ma la storia delle candidature degli uni e degli altri, dei grandi e dei piccoli mi ha fatto un po’ specie.
Largo ai giovani, spazio alle persone che si sono distinte nei vari campi del sociale (e non solo), si dice, anzi dicono un po’ tutti. Già i più accorti hanno colto, però, qualche cognome pesante, di denaro e fama ereditata soprattutto, presente in ogni lista, anche nel proclamato nuovo.
Forse anche i candidati sono come le notizie: meritano la prima pagina solo quelle politiche e che cosa di meglio di candidati da prima pagina per la politica?
Eppure credo che anche in questo, in questo in particolare si sarebbe potuto fare qualcosa di nuovo e diverso.
Tutti inseguono uomini e donne simbolo, non importa di cosa, basta che siano simboli di un tempo, di un luogo, di una memoria. Dopo aver dichiarato che intende congedare l’esperienza, la politica sceglie di adottare il simbolo come faro per il suo futuro.
Solo che simboli si diventa dopo, di solito, che qualcosa si sia fatto o sia accaduto.
È chiaro, si potrebbe rispondere, non si può diventare riconoscibili per gli altri se non si è vissuto qualcosa di notevole e significativo. Prima la vita e poi la politica, dunque, come se quest’ultima fosse un sistema parallelo e secondario alla prima alla cui rincorsa si getta senza mai la speranza di raggiungerla.
Sarà possibile un giorno che la politica scopra che la sua stessa ragione d’essere consiste nell’anticipare e prevenire o se non altro dare voce alla vita prima che essa si ribelli, si esalti, si sfinisca con il solito quotidiano ceduto all’antipolitica?
È necessario che muoiano in sette contemporaneamente perché si pensi che i lavoratori debbano avere una legittima rappresentanza in Parlamento? O che un ricercatore fugga all’estero, e magari sia aiutato da altri a condurre a buon fine i propri studi sperimentali, per essere candidato a migliorare la prospettiva dell’università in Italia?
Una politica davvero nuova si chiede che cosa può fare prima per e dei cittadini, rifiuta la logica dell’inseguimento, sceglie i propri candidati tra coloro che prima – che muoiano o ereditino, che vincano Nobel o si arricchiscano - possono essere importanti per il dopo – loro, di tutti, dello Stato -.
Vorrei, insomma, una politica profetica e non compiacente, illuminante e non da illuminare, capace di promuovere il coraggio e la sfida dei valori e non preoccupata solo di vivere e insegnare l’autodifesa.
In direzione ostinata e contraria rispetto alle tendenze anche di questa stagione.

martedì 12 febbraio 2008

Rumors

Chi non sa, insegna
Chi lavora, non sa fare altro
Chi ama, non sa stare solo
Chi ascolta, non sa parlare
Chi gioca, non vuole crescere
Chi sceglie, non si fida
Chi cammina, non sa correre
Chi ride, non è serio
Chi è buono, è solo quello
Chi è onesto, l'occasione non l'ha reso ladro.

martedì 5 febbraio 2008

Votantonio

Per i più l'atto del voto occupava un posto minimo nella coscienza, era una crocetta da segnare con la matita su di un segno stampato, qualcosa che si doveva fare come era stato loro insegnato con tanta cura [...]. Per altri invece, più emotivi, oppure indottrinati secondo un diverso sistema didattico, la votazione pareva si svolgesse in mezzo a pericoli e inganni; tutto era motivo di diffidenza, d'offesa, di paura.
[I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, Oscar Mondadori 1994]

Daniel Pennac sostiene da tempo che il verbo leggere non ha imperativo. Come il verbo amare, d’altro canto, ma in questo caso non serve che qualcuno lo dica, basta respirare o ripensare alle infelicità amorose degli eroi di carta di ogni letteratura.
A questo proposito, Patrizia Valduga scrive che non può leggere un romanzo “che valga la pena” perchè un romanzo deve dare gioia, accidenti, non pena!
Noi, invece, tra poco, dovremo assolvere all’imperativo del voto sperando proprio che ne valga la pena.
Pochi verbi sono più carichi di oneri e sofferenze inerenti e conseguenti al verbo votare.
E non penso tanto al nostro fastidio, che sarà mai quell’imperativo sfacciato che ci chiama al voto dalle locandine elettorali come se fossimo tutti soci e conniventi nella buona e nella cattiva sorte, quanto al lavoro tutt’altro che oscuro e assai compromettente del candidato, che nell’invito alla (sua) scelta deve sorreggersi con sorrisi, proclami, parole che di norma hanno ben altro peso nella società civile.
Immaginate la frustrazione di chi promette libertà e diritti e poi si vede costretto a proporre leggi-porcata.
Immaginate il tormento di chi oggi dichiara guerra ai privilegi e sarà coinvolto, pena il marchio infamante della diversità, nelle nomine di giudici e primari.
Immaginate l’angoscia di chi al posto del senso del dovere e di rispetto verso la Costituzione e il popolo italiano che oggi sbandiera sarà obbligato a servirsi per interessi privati dell’onorevole ruolo che ricoprirà.
È al dramma di tutti costoro che dobbiamo pensare quando, come si dice, nel segreto dell’urna, obbediremo al nostro modesto dovere.
Questa volta potremmo concederci noi un gesto di generosità verso coloro che con tanta prodigalità si sono occupati di noi in questi ultimi dieci, quindici anni: facciamo in modo che nessuno di loro soffra ancora per colpa nostra.

domenica 27 gennaio 2008

Ahi serva Italia

L’attualità profonda, importantissima, della vicenda Ambrosoli non si limita solo al profilo esemplare del protagonista. Purtroppo non dimostrano di aver perso attualità neppure i suoi tanti nemici: i politici devianti, la grande criminalità organizzata intrecciata con gli ambienti più eversivi della massoneria, quel filo che lega ambigui capitali e il sottosuolo malavitoso di un paese la cui libertà è ostacolo per gli interessi occulti dei tanti potenti fuorilegge. […]
Giorgio Ambrosoli è simbolo del grande, terribile scontro tra i poteri forti, basati sulle deviazioni delle regole, e i valori forti, dall’onestà alla trasparenza, che devono contraddistinguere una democrazia compiuta.
[M. De Luca, La lezione di un eroe borghese, in AA.VV. Giorgio Ambrosoli: «Nel rispetto di quei valori», interlinea edizioni 1997]

Non so quanti si ricordino di quest’avvocato ucciso l’11 luglio 1979 sotto la sua casa nel cuore di Milano. Professionista stimato e silente, di intima convinzione monarchica sfumata in un liberalismo più che moderato e lontano dalla politica dei partiti, fu nominato liquidatore della banca di Michele Sindona, il potente garante dei rapporti profondi tra mafia e politica. Per questo, per la sua onestà, per il rigore con cui interpretò il ruolo di servitore dello Stato che si trovò a vivere con profondo rispetto della legge e con incredula amarezza verso l’illegalità diffusa e impunita che lo circondava nei palazzi del potere, venne assassinato da un sicario di Sindona che orchestrava dagli Stati Uniti le vicende economiche e non solo del nostro Paese.
Non so davvero quanti tra le generazioni che seguono la mia, in particolare tra i più giovani, tra i ragazzi che affollano per dovere le aule scolastiche e per piacere i centri commerciali, prima e sempre consumatori e poi cittadini se capita, sappiano quanto è importante conoscere l’attività e il pensiero di un uomo come Ambrosoli.
E vorrei che molti di loro desiderassero conoscere la storia di uomini come il giudice Alessandrini, il giornalista Tobagi, il sindacalista Rossa, il giovane Impastato, il giurista Bachelet, il politico Moro. Tra i tanti morti degli anni ’70, questi sono accomunati dalla volontà di capire, di lavorare, di favorire la crescita di un Paese che stava cercando un nuovo equilibrio politico, intellettuale ed economico.
Quando rapirono Aldo Moro, il liceo che frequentavo stava vivendo giorni di autogestione, molti di noi partecipavano quotidianamente ad assemblee che oggi si chiamerebbero di didattica alternativa e si concorderebbero con il preside, ma che una volta si dovevano conquistare con gli scioperi e si pagavano con le ritorsioni degli insegnanti.
Non so chi diede la notizia, ma la notizia del fatto arrivò e quando arrivò, le parole lo chiamarono tragedia.
Ricordo che mi sentii smarrita, ancora non votavo, ma ero curiosa, impegnata nel sociale, giovane davvero insomma, e mi ritrovai piena di inquietudine. Scelsi di tornare in classe, avevo voglia di un adulto che mi spiegasse, mi aiutasse a capire e mi desse anche un po’ di conforto. Nessuno lo fece e in tanti cominciammo a nutrire la paura del vuoto e dell’indifferenza che a diversi livelli si stava impadronendo delle maglie della vita pubblica, a partire dalla scuola.
Quando il corpo di Moro fu ritrovato sembrava che sui giornali e nella nostra attenzione non ci fosse spazio per altro. Dopo pagine e pagine di infinito dolore ufficiale e pubblico, mi imbattei in un brevissimo articolo che riferiva della fine drammatica, ma all’apparenza per niente politica, di un giovane siciliano il cui corpo era stato travolto da un treno in corsa. Ricordo che mi chiesi chi mai si sarebbe accorto e ricordato di questo ragazzo in giorni così feroci per lo Stato. Presto si scoprì che Peppino Impastato era stato in realtà vittima della mafia che l’aveva sequestrato, pestato e fatto “suicidare” sulle rotaie.
Così lontani, così vicini: nel giorno del lutto nazionale, c’erano molti altri motivi e morti per piangere sull’Italia.
In queste settimane confuse, il pensiero è andato spontaneo a tutte le vittime di quegli anni. Forse a caccia di esempi di onestà, seppure pagata con il sangue, forse per spolverare i modi della consapevolezza e della reazione.
Allora la violenza spargeva sangue ma anche indignazione e rabbia, mentre oggi, distillata nei dibattiti e nei salotti televisivi, non stupisce nemmeno per l’arroganza e la presunzione di potere che ostenta.
Oggi si può dire che gli operai muoiano per colpa loro, può accadere che le condanne si festeggino a pastarelle, si può affermare che il Nord farà la rivoluzione armata – e le armi si troveranno! – senza che tutti sentano l’esigenza di smascherare e additare prima di tutto la profonda violenza morale che parole simili nascondono e comportano.

martedì 15 gennaio 2008

Gi spifferi

Se c’è qualcosa da cantare è il cambio del vento,
quando da ovest si fa a est, e, gelando, la fronda
a sinistra si sposta, con scricchi di malcontento 
[…]
[Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi 1986]

“Con lui ho chiuso”, diceva all’amica la donna che mi stava seduta accanto sul treno.
Da qualche dettaglio era abbastanza ovvio che si riferisse a una storia d’amore che, come dire, passava la mano.
“E adesso?”, si sorprendeva l’altra.
“Adesso niente, quando si chiude, si chiude. Ognuno per la sua strada. Ho solo voglia di dimenticare”, ribadiva non senza veemenza la prima.
Certo ciascuno avrà avuto le sue buone ragioni , penso, e d’altro canto tutti hanno buone ragioni anche per cattive azioni – oggi si chiama eterogenesi dei fini -, ma spio con ansia se i suoi gesti tradiscano il freddo che le arriverà dalla breccia aperta: un’increspatura delle labbra, la sciarpa riannodata, la ricerca di una caramella per la gola.
Niente di tutto questo. Il verbo chiudere non le sembra una porta tarlata. Per un attimo le intuisco in viso solo la gioia del cambiamento e l’idea di aprire una nuova strada, (abbiamo bisogno di pensare che i catenacci siano garantiti per praticare grammatiche di speranza).
Ripenso alle parole del vecchio abitante di Villa Cesarina: "La vita è come un vestito, ogni volta che ti siedi fa una piega che non vuoi. Puoi stirarlo, certo, se sei ricco lo fai fare agli altri, ma non è più nuovo. Per non fare brutte figure lo lavi e lo stiri, ma tu sai quante volte ci hai messo mano e, chissà, forse un giorno impari anche a sederti meglio, magari a non far vedere che in quel punto è un po’ liso e ti copre meno. In fondo solo tu ti accorgi se prendi freddo. Ma insomma, consumato è consumato. Anche i re e le regine si consumano. Oggi i vestiti li vendono già sciupati, così non pensiamo che sia colpa nostra se si rovinano in fretta".
Guardo le vite indossate nello scompartimento di questa mattina e mi chiedo da quanto siano così accartocciate, visto che l’anno appena iniziato è fresco di sartoria.
Vedo la mia vicina pronta per scendere: sistema la gonna, si adatta il piumino, infila guanti e cappello. Nient’affatto sgualcita, anzi all’apparenza graziosa.
Arrivata al lavoro, si siederà e forse i nuovi discorsi saranno pieghe nuove.
Una volta a casa penserà di chiudere con i vestiti segnati dal mestiere. Gli spifferi degli affetti hanno bisogno di altri colori, di tessuti più resistenti e più sicure protezioni.
Ma se la vita è davvero un vestito, di tutto porta orma e sempre assomma usura: le assenze e le presenze, i silenzi e le parole, il negato e l’ammesso che nessuna mano per quanto abile riesce a cancellare. Crepacci dissimulati nel quotidiano.
“Domani è un altro giorno”, recita il teorema di chi ha trovato la formula che mondi possa aprirci. Forse, in verità, è solo il marchio di una linea di abbigliamento.

martedì 1 gennaio 2008

Benvenuti

I Re Magi

Hanno perduto la Stella una sera. Perché si perde
la Stella? A volte, per averla troppo guardata…
I due Re Bianchi, che erano saggi di Caldea,
hanno tracciato dei cerchi al suolo, col bastone.

Hanno fatto dei calcoli, grattandosi il mento…
Ma la Stella è sfuggita, come sfugge un’idea,
e costoro, la cui anima ha sete d’una guida,
hanno pianto, drizzando le tende di cotone.

Ma il povero Re Nero, che gli altri due disprezzano,
dice tra sé e se: «Pensiamo alla sete degli altri.
Bisogna dar da bere, comunque, agli animali».

E mentre sta reggendo il secchio per il manico,
nell’umile ansa di cielo in cui bevono i cammelli,
scorge la Stella d’oro, che danza silenziosa.

[Edmond Rostand, Le cantique de l’Aile, trad. di C. Poma, Fasquelle, Paris 1922]


L’autore del Cyrano per gli auguri di inizio anno.
Quale migliore istruzione per l’uso del nuovo pacchetto regalo che si scarta dal primo gennaio.
Tutto ciò che si può sinceramente augurare e intimamente realizzare è scritto lì, tra i borbottii increduli di chi credeva di sapere e il bisbiglio quieto di chi sceglie di fare.
Comunque vada l’anno, ci saranno occasioni in cui sfuggirà il senso e la vista e la ragione e la voglia e la meta e le forze…
Qualunque cosa accadrà, ci sarà però un’altra azione, un altro pensiero, un altro bene da fare e da dare. E da diventare.
Per molto tempo ho pensato e spesso ripetuto quanto sia difficile nella vita imparare a bussare. Le porte non mancano, dicevo, bussate e qualcuno aprirà. Magari non si spalancherà la porta dell’amico atteso e desiderato, ma una porta si aprirà, fossanche quella di un vicino seccato dal rumore insistente prodotto dalle vostre nocche. Sarebbe comunque una voce e un volto e una sorpresa della vita.
Un giorno però nel mezzo di un dolore afoso io stessa non trovavo né mani, né speranza. Solo porte irrimediabilmente chiuse. E la mia storia sembrava non bastare. Finché un rumore mi ha fatto guardare verso un altro punto della stanza, in basso in un angolo sconosciuto cercava la mia attenzione un animale che sembrava in pieno risveglio, che certo aveva fame e voglia di luce e di prati. In pratica aveva voglia anche di me, di sperare che io fossi la sua speranza.
Non avrei mai immaginato che la porta fosse lì, pensavo fosse sufficiente guardarsi intorno, ad altezza di porta…umana.
Cercavo di capire e sono stata annusata, volevo trovare e sono stata trovata.
Qualche tempo fa Ettore Sottsass, scomparso da poche ore, in un’ intervista in occasione dell’ ultima mostra a lui dedicata a Trieste, alla domanda se si sentisse più capito o solo venduto ha risposto «Mah,…non c’è da capire, ma da amare».
E allora buon anno, un anno buono, a tutti.