domenica 18 dicembre 2011

Partenza laica

E quando la terra chiederà le vostre ossa allora danzerete veramente. 
[Gibran Kahlil Gibran, Il Profeta, Guanda 1986]


Il primo e l’ultimo giorno che ti ho incontrato ti ho scambiato per un altro.
Solo in fondo al pozzo (l’hai voluto?),
tenero e feroce prima (l’hai scelto).
Tengo di te un tempo d’argento e il primo libro cercato per me.
E una foto e dentro le parole il silenzio, diventato poi la sola parola.
Non c’è per noi memoria indolore né di passi né di vino,
ma eri stanco da mille giorni e vicino l’inverno.
Non era il caso, davvero, di lasciare tanto spazio. Fa freddo.

lunedì 12 dicembre 2011

Natalitudine

Cerco di radicarmi in me, dipendo puntigliosamente dall’esterno, da persone e cose che non riescono a garantirmi sicurezze. Così la casa si fa radice vistosa e assorbente [...] lavori pesanti non ne faccio più; ma restano tantissimi piccoli gesti – [...] dividere il bianco dal colore prima di mettere i panni in lavatrice, attaccare i bottoni, comprare il concime per le piante, sostituire il rotolo finito di carta igienica con quello nuovo [...] grattugiare il parmigiano – e senza questi gesti non si sopravvive, io non sopravvivo.
[C. Sereni, Casalinghitudine, Einaudi 1987]


Guardo la data di pubblicazione di questo libro, 1987, e ripenso a quando l’ho comprato, poco dopo la sua comparsa in libreria dove lavoravo “a evento”- per la scolastica e il natale -, a come l’ho letto e a quanto ha influenzato non tanto la mia vita, ma la mia predisposizione a immaginarla.

Quasi laureata, appena sfidanzata, già insegnante part-time, giornalista a richiesta, piena di speranze e di progetti insomma, nessuna intenzione di accontentarsi delle piccole cose.

Eppure quel libro conteneva già tutto quello che sarebbe diventato parte di me: l’attrazione fatale per il tema della maternità, difficile possibilmente (pochi anni dopo recuperai un volumetto raro dal titolo profetico Mi riguarda, in cui la Sereni con Pontiggia, Flaiano e altre anime belle della cultura italiana si interrogavano sull’essere genitori disabili), l’interesse per la cucina come gioco e cuore, il bisogno disperato di fare casa ovunque si stia (per poter dire “ritorno”), l’emozione di scoprire che il quotidiano è degno di scrittura.

Mi piacque perché era concretamente lontano eppure inspiegabilmente vicino.
E poi c’era quella cosa della carta igienica da sostituire, detta in quel modo che rappresentava una scoperta e una gioia. Come a dire che anch’io, nipote di un carbonaio potevo raccontare i giorni. Se Leopardi aveva sdoganato le galline in su la via, anche la carta igienica poteva diventare oggetto di riflessione metafisica (perché la necessità fisica della suddetta nessuno la metteva in discussione).

Da allora, con intermittente frequenza (ogni volta che conosco qualcuno o inizio a frequentare per amicizia o lavoro luoghi nuovi) uno dei miei interessi è immaginare e indovinare chi è l’addetto alla sostituzione del rotolo della carta igienica: se lo fa chi capita, se sono gli adulti di casa a turno, se è sempre la moglie-madre, se i maschi si accorgono della prossima fine del vecchio rotolo. É, per esempio, molto interessante notare che nei luoghi pubblici manca regolarmente e, infatti, il più delle volte sono l’emblema della trascuratezza e della sporcizia. Chi la sostituisce nei luoghi di lavoro lo fa in genere senza affetto, lo si capisce per via del fatto che spesso bisogna segnalarne l’assenza ogni volta a una persona diversa (a seconda del turno).

A volte mi diverto a trovare nella vita di ogni giorno gesti simbolicamente simili: ristampare una copia dell’ultimo modulo che sto prelevando, riempire la zuccheriera che pure non uso, togliere la frutta dal frigorifero in estate o dal balcone in inverno perché non sia troppo fredda per il pasto.

Eppure niente è più vicino allo spirito del Natale della sostituzione del rotolo di carta igienica.

martedì 6 dicembre 2011

Spero, promitto e iuro senza futuro

Nell’operare politico, nel procurare di conseguire un determinato fine, tutto diventa mezzo di politica, tutto, non escluse in certa guisa la moralità e la religione, ossia le idee, i sentimenti e gl’istituti morali e religiosi. La situazione iniziale è data caso per caso: gli uomini coi quali si ha da fare, sono inizialmente quello che sono; i loro concetti, i loro preconcetti, le loro buone o cattive disposizioni, le loro virtù e i loro difetti porgono il materiale sul quale e col quale bisogna operare, e non c’è modo di commutarlo con altro che piaccia meglio. Se bisognerà, per accordarsi con essi in una comune azione, per muoverli al consenso, carezzare le loro illusioni, lusingare la loro vanità, fare appello alle loro credenze più superstiziose e più puerili, per esempio il miracolo di san Gennaro, o ai loro concetti più superficiali o più superficialmente intesi, per esempio l’eguaglianza, libertà e fraternità [...] converrà adoperare questi mezzi.
[B. Croce, Elementi di politica, RCS 2011]

È l’imposta straordinaria patrimoniale un congegno meglio adatto di una imposta straordinaria sul reddito a fornire allo stato il provento monetario, una volta tanto, necessario a far fronte alle spese straordinarie del momento presente? La risposta parmi sicura: nella sostanza no; nell’impressione psicologica sui contribuenti può darsi .
[L. Einaudi, L’imposta patrimoniale, chiarelettere 2011]


Garbatamente provocata, torno a rileggere qualche pagina di Croce ed Einaudi. La mia conoscenza dei loro testi è meno che minima e la mia comprensione del loro pensiero è, se possibile, ancora più scarsa. Certo avrei potuto scegliere altri filosofi e politici di posizione politica più affine, ma la percezione non sarebbe cambiata.

Scuote, infatti, la barbara trascuratezza nei confronti del genio sprigionato dalle loro parole, la profondità della loro energia intellettuale e, mi si perdoni, la potente inattualità delle loro teorie.

Non tanto perché il tempo è passato ancora una volta invano e ancora una volta la storia non è stata magistra di nulla, ma perché oggi più che mai si può solo denunciare l’assenza, o meglio, la morte dell’idea politica ed economica che dovrebbe informare di sé ogni scelta personale e collettiva. La progressiva e mirata trasformazione dei cittadini in consumatori e dei politici loro rappresentanti in dirigenti dei punti vendita delle risposte immediate ai pruriti del quotidiano (che loro stessi solleticano), non lascia spazio al futuro.

Non stupisce che l’ultimo passaggio (l’ultimo?) ci scopra precari e poveri, incapaci soprattutto (solo?) di acquistare.

Perché di pensare abbiamo smesso da tempo e nessuno se ne è lamentato.

lunedì 28 novembre 2011

Fuori dal coro

Io ho le scarpe rotte e l'amica con la quale vivo in questo momento ha le scarpe rotte anche lei. Stando insieme parliamo spesso di scarpe. Se le parlo del tempo in cui sarò una vecchia scrittrice famosa, lei subito mi chiede: «Che scarpe avrai?» Allora le dico che avrò delle scarpe di camoscio verde, con una gran fibbia d'oro da un lato. Io appartengo a una famiglia dove tutti hanno scarpe solide e sane. Mia madre anzi ha dovuto far fare un armadietto apposta per tenerci le scarpe, tante paia ne aveva. Quando torno fra loro, levano alte grida di sdegno e di dolore alla vista delle mie scarpe. Ma io so che anche con le scarpe rotte si può vivere.
[...] I miei figli dunque vivono con mia madre, e non hanno le scarpe rotte finora. Ma come saranno da uomini? Voglio dire: che scarpe avranno da uomini? Quale via sceglieranno per i loro passi? Decideranno di escludere dai loro desideri tutto ciò che è piacevole ma non è necessario, o affermeranno che ogni cosa è necessaria e che l’uomo ha il diritto di avere ai piedi delle scarpe solide e sane?
[N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi 1972]


Da piccola, tra le prime parole che mi hanno insegnato c’era l’aggettivo “modesto”.

Nei racconti che leggeva la maestra compariva spesso una fanciullina dagli abiti modesti, che abitava in una casa modesta, dove di solito appariva una tavola apparecchiata modestamente (a quel punto io, che non riuscivo bene ad afferrare il significato del termine, se non associandolo magari ai vestiti indossati da Cenerentola prima del principesco matrimonio, immaginavo soprattutto un tavolo abitato da frutta di piccole dimensioni, che mi sembrava il segnale più evidente della “modestia”: non di rado ancora oggi spesso mi scopro a sbirciare la spesa e le mani di chi sceglie la frutta di piccolo calibro, massimo emblema della mia modestia immaginaria appunto).

Di questi tempi l’aggettivo compare raramente, solo nelle cronache locali riferito alla vita o alle abitudini di qualche improvvisato delinquente di provincia (o delle sue vittime). Da quando, però, la fantasticheria silenziosa delle parole è guidata dall’influenza delle immagini televisive che non lasciano spazio a un’adeguata conoscenza del vocabolario né a originali scampagnate dei pensieri, fatichiamo a recuperare il senso delle parole. E della vita.

Quale casa è modesta? Quanti locali e quanta oggettistica richiede la modestia? Una bigiotteria smagliante fa la donna più modesta di un unico monile d’oro ben indossato? E un buco nel calzino di un uomo di potere basta a renderlo modesto? Modestia è avere le scarpe rotte, averne meno degli altri o essere consapevole dei propri piedi? Sarà più modesto credere o dubitare? E che cosa sarà nobilmente modesto, coltivare l’essenziale o pensare che è essenziale realizzare i nostri desideri?

Alla fine mi sembra che siamo diventati tutti invariabilmente modesti: chi possiede e chi no, chi ha parole e chi è muto, tutti accomunati dalla modestia dell’incultura, che ci toglie il respiro della coscienza.

domenica 20 novembre 2011

Mariolina

La spigolatrice (di Sapri) ride come una fanciulla timida,
con più anni di una bambina e meno di una fata.
La bocca aperta lascia fuggire una rondine che troverà casa altrove.
Basta che sorrida.
Non ascolta più nessuno, dentro il bosco dei pensieri che la portano via.
Ma è certa di essere viva e non vuole lasciare la storia a metà.

La storia è sempre a metà, gli occhi non possono andare oltre.
I figli non continuano la vita dei padri,
né i vermi quella degli uccelli dell’aria.
Nessuno può niente per nessuno.
Crede di essere giovane la spigolatrice o forse immortale.
Come il legno di un tavolo da lavoro, non di magie né di poesie.

Le donne di carne amano i fiori anche l’ultimo giorno,
le donne di sale vanno spasso tra i ricordi anche l’ultimo giorno.

martedì 15 novembre 2011

In direzione ostinata e contraria

Serve molta immaginazione per capire la realtà.
(Antonio Lopez Garcías)


Nebbia, foglie che cadono, vestiti pesanti: sottrazioni o addizioni che hanno il medesimo scopo, quello di indurre il desiderio di forme e di colori che non si vedono ma ci saranno o ci sono stati.

Quasi che le stagioni (un tempo travestito di colori è più facile da sentire) fossero solo una palestra dove sviluppare ciò che meno abbiamo, l’immaginazione appunto.

I cani abbaiano per un presagio di pericolo, le fate sanno ciò di cui il mondo ha bisogno, i bambini giocano a quando “eravamo pirati”.

Noi, invece, aspettiamo che ci chiedano aiuto, ci dichiarino l’amore, ci annuncino una malattia, chissà poi se per allergia al reale o amore d’apparenza.

Qualche volta è anche bello attraversare la vita con gli abiti sbagliati.

martedì 8 novembre 2011

Ma

Io aspetto il giorno in cui il Regno dell’Utile sarà rinverdito dalla cultura, dalle metafore, dall’intelligenza.
(Leonardo Sinisgalli)


Il giornale di oggi mi dice che negli Stati Uniti c’è una colpa che non viene mai perdonata ed è quella di apparire indecisive, che significa molto più dell’italiano “indeciso”: meglio un capo di stato che sbagli con decisione a uno che susciti l’impressione di non sapere chi sia e che cosa debba fare, asseriva l’articolo.

Sarà vero per un capo di stato, ma nella coda ordinata dei pazienti in cui mi confondo di primo mattino, mentre guido, durante il lavoro nel pomeriggio, nello studio e nella lettura serale, cerco di capire. Quante sono le persone alle quali si potrebbe rivolgere l’accusa di indecisive: sì, lui certo, e anche loro e poi lei e sua sorella e il mio capo e la collega andata in pensione e l’infermiera all’accettazione e mio marito e l’assessore e il sindaco del paese di A e quello di B. Vale anche la mia candidatura? Anche il parroco a ben pensarci. Anche la persona che ho votato alle ultime elezioni. Mio padre pure, che si assentava dalle decisioni per difendersi dalla paura di scoprirsi inadeguato. Non c’è scampo, l’elenco si allunga dolorosamente perché accompagnato dalle storie di cui è portatore.

Alla fine forse ho trovato: e se gli incerti, i non decisivi fossero tali solo perché imprigionati dalla loro gentilezza, ad essa dedicati, cioè finti singolari, poco pieni di sé, portatori sani dell’attenzione agli altri e al contesto, inclini al compromesso che non umilia, ma che abbraccia? Oggi però, in queste democrazie proclamate e non condivise, nelle nostre famiglie ostentate e poco spaziose forse andiamo solo alla ricerca del neurone muscoloso, utile a vincere senza partecipare.

domenica 30 ottobre 2011

Voltare pagina

Tutto è pronto: la valigia,
le camicie, le mappe, la fatua speranza.
Mi spolvero le palpebre.
Ho messo all’occhiello
la rosa dei venti.
Tutto è pronto: il mare, l’atlante, l’aria.
Mi manca solo il quando,
un diario di bordo, il dove, le carte
di navigazione, venti a favore,
il coraggio e qualcuno che mi ami
come non so amarmi io.
La nave che non c’è, la mani attonite,
lo sguardo intento, le imboscate,
e l’orizzonte un filo ombelicale
sottolineando questi versi sospesi...
Tutto è pronto: è serio, è vano.
[J.V. Piqueras, Palme, Empirìa 2005]


Il tempo è tutto scritto, solo non ha dita per voltare le sue pagine, disuguali agli occhi dei vedenti, sempre uguali ai più.
Il tempo ha solo vigilie, senza i domani di eventi e di feste che le mani umane (s’)inventano.
Eppure il tempo è generoso, lascia che i giorni sfogliati diventino nostri, si chiamino desideri e rimpianti, lutti e novità. Che siano, forse e anche, inconsapevole poesia.

domenica 16 ottobre 2011

Domani e anche dopo

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.”
[Giorgio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso]


Bisogna alzarsi da tavola con appetito e dal letto con un po’ di sonno.
E uscire da casa senza dimenticare chi ci resta.
E camminare senza calpestare.
Ed entrare nei giorni con bagaglio leggero e lasciarli con un sorriso.
E finire un libro solo dopo averne iniziato un altro.
E giocare per vincere, ma non sempre.
E vivere un giorno alla volta, anche quando li chiamiamo anni.
Bisogna lasciare un po’ di spazio per il dolce.

lunedì 3 ottobre 2011

Tornare

Io non farei mai l’insegnante, ma se mi condannassero a farlo direi subito: “Fate soltanto quello che siete capaci di fare”. Dopo di che me ne potrei anche andare. Di questo modesto principio si è perso l’uso.
[Franca Valeri, Bugiarda no, reticente, Einaudi 2010]


In nome di modesti principi si può anche tornare, per vedere se si è ancora capaci di fare ciò che (forse) si sa.

lunedì 7 marzo 2011

A proposito di elenchi...

Vi porgo una piccola guida allo stream of consciouness, al monologo interiore, scrigno che racchiude quelle impressioni che, sciolte dopo l’ibernazione, possono, ancora una volta, dare calore.
[R. Pucci di Benisichi, Guida alla felicità minore, Sellerio 2013]


Di questi tempi si parla tanto di elenchi. Li si scambia, ci si gioca tra amici, se ne propongono di incredibili e curiosi. Qualcuno si vuole intellettuale, come se bastasse questa paratassi della fotografia dell’esistenza a darci la misura dell’intelletto nostro e altrui.
Fatto sta, comunque, che gli elenchi restano qualcosa di assolutamente privato, perché uno elenca, in fondo, solo se stesso nelle diverse variabili dei tempi e delle occasioni della vita.
Forse ci sarebbe bisogno di qualcosa di più generoso (una volta si sarebbe detto politico), qualcosa che faccia capire che ci si accorge degli altri anche in questo nostro quotidiano matto e disperatissimo.
Per esempio che si contino le auto ferme in sosta accanto a noi e si osservino e descrivano le facce dei guidatori in attesa di raggiungere il posto di lavoro, restando fermi. O che si contino i genitori in attesa davanti a una scuola materna mentre aspettano che si aprano i cancelli: si prenda nota degli argomenti delle conversazioni, dei vestiti firmati e di quelli da mercato indossati, delle mani curate e di quelle screpolate, dei papà in cravatta e delle mamme con il velo, dei fratellini in carrozzina e dei nonni trepidanti. O, ancora, che si mettano ben bene in fila le facce di chi è in attesa all’Inps, davanti allo sportello della disoccupazione.
Se non si riesce a cambiare, almeno questa vita la si fotografi e la si cataloghi non per i suoi e i nostri dispiaceri o piaceri, ma nei suoi momenti di pausa, quando tutta l’umanità per le più diverse ragioni è ferma, in coda per qualcosa. Quando non sta succedendo un bel niente, perché tutto quello che accade sta nascosto nei silenzi e negli sguardi. Magari, chissà, si scopre che i momenti considerati più inutili ci aiutano a fare la rivoluzione...
Questo è il mio album di figurine di oggi, per esempio, in coda in una sala d’aspetto d’ospedale.

1) la faccia del signore vecchissimo e malatissimo entrato su         
    una sedia a rotelle: avrà mai avuto diciotto anni?
2) la mano forte, anche senza due falangi del dito indice della    
    destra, dell’uomo che l’ha aiutato ad alzarsi dalla suddetta            
    sedia: si fa a meno di tutto, fuorché degli occhi per vedere che               
    c’è sempre qualcuno che ha più bisogno di noi;
3) le unghie laccate rougenoir dell’infermiera all’accettazione: 
    forse portare addosso un po’ di estate a marzo l’aiutava a essere 
    gentile;
4) il sorriso un po’ statico di una suora alla vista di una giovane 
    madre che allattava al seno un bambino: si sarà chiesta che 
    cosa si è persa?
5) il numero spropositato di anziani rispetto ai giovani: di quante 
    e quali malattie saranno stati portatori consapevoli?
6) i foulard al collo delle donne in attesa: sarà stato il primo che 
    avevano a portata di mano stamattina?
7) il trucco e la mise perfetti di una mamma con intera famiglia al 
    seguito: ma quanto avrà impiegato a prepararsi? E gli altri? Ma 
    avranno due bagni?
8) gli sguardi persi molto nel vuoto di alcuni: chi avrà conosciuto i 
    nomi e il senso degli esami prescritti?
9) assenza più acuta presenza, dice il poeta: che cosa staranno 
    facendo i figli e i nipoti di chi è qui ora?
10) i giornali in omaggio abbandonati sui tavolini, un solo 
    Corriere arrotolato sotto un braccio, un Espresso trasformato 
    in un porta-ricette, nessuno in lettura: perché dovrebbero 
    leggere proprio qui, orfani della televisione che li accompagna 
    sempre, soprattutto da malati?

domenica 27 febbraio 2011

Resistenza

[...] Questo è il pericolo che ancora oggi, nonostante il variar delle tessere, minaccia la scuola italiana: che essa cada (o rimanga) sotto il dominio di un conformismo senz’anima, che cerca di mascherare sotto una ostentazione di stretta osservanza il gelo della propria sfiduciata indifferenza. 
Il pericolo non è, come qualcuno dice, che la scuola italiana diventi la scuola dei preti; il pericolo è che sulle cattedre salgano i burocrati apatici, travestiti da preti (come ieri da fascisti) per fare con più comodo i loro affari; e continuino a seminare nella scuola quel costume di accomodante ipocrisia, che è stata sempre, in tutti i gradi, la peste della vita italiana [...].
(Piero Calamandrei, 1955)

domenica 16 gennaio 2011

Pazienza

La caratteristica principale della nostra esistenza è la suspense. Nessuno – assolutamente nessuno – può sapere come andrà a finire.
[S. Bellow, Quello col piede in bocca e altri racconti, Mondadori 1984]


Forse il destino lo leggiamo solo dopo. E solo allora, quella che crediamo la nostra storia diventa tale.
Prima invece confondiamo la vita con la storia, come se fossero sinonimi, come se quello che facciamo avesse davvero un inizio (nasciamo), uno sviluppo (cresciamo e dintorni), e una fine (moriamo). Come in un film o in un libro (meglio dire come nel più banale dei compiti che a scuola ci hanno sempre assegnato).
Sarebbe più intelligente pensare che siamo un po’ più piccoli, un po’ meno di una storia, solo lettere dell’alfabeto.
Perché, sì, iniziamo e finiamo, questo è certo, ma per il resto... chissà in quale capitolo siamo protagonisti e in quale comprimari. 
Da vicino, tutti si vedono solo stampati maiuscoli e maiuscolamente vivono.
Incontri, amori, amicizie, dolori, gioie saranno stati punti, virgole, esclamazioni o spazi bianchi?
Varrebbe la pena di pazientare un po’, tanto poi finisce e allora scopriamo che solo imparando a leggere anche il corsivo minuscolo siamo stati un po’ vittime e un po’ assassini.

sabato 1 gennaio 2011

La mia bambina

La mia bambina

è un anno bisestile

La mia bambina

è un fiume carsico

La mia bambina

è la radice di un platano

La mia bambina

è la sirena di un’ambulanza

La mia bambina

è il giorno della vigilia, mai la festa

La mia bambina

è l’ingrediente, non il piatto

La mia bambina

è nata nel secolo scorso, quindi è vecchia

La mia bambina

è l’amante e non la moglie

La mia bambina

è la luce lampeggiante di un faro

La mia bambina

è l’alba, mai il giorno

La mia bambina

è una betulla al mare

La mia bambina

è un quaderno bianco

La mia bambina

è un gelato d’inverno

La mia bambina

è un gatto che ama il rosso

La mia bambina

è un armadio piccolo, per una sola stagione

La mia bambina

è non potere dire mai “vorrei”.

La mia bambina

non è mia.