lunedì 28 novembre 2011

Fuori dal coro

Io ho le scarpe rotte e l'amica con la quale vivo in questo momento ha le scarpe rotte anche lei. Stando insieme parliamo spesso di scarpe. Se le parlo del tempo in cui sarò una vecchia scrittrice famosa, lei subito mi chiede: «Che scarpe avrai?» Allora le dico che avrò delle scarpe di camoscio verde, con una gran fibbia d'oro da un lato. Io appartengo a una famiglia dove tutti hanno scarpe solide e sane. Mia madre anzi ha dovuto far fare un armadietto apposta per tenerci le scarpe, tante paia ne aveva. Quando torno fra loro, levano alte grida di sdegno e di dolore alla vista delle mie scarpe. Ma io so che anche con le scarpe rotte si può vivere.
[...] I miei figli dunque vivono con mia madre, e non hanno le scarpe rotte finora. Ma come saranno da uomini? Voglio dire: che scarpe avranno da uomini? Quale via sceglieranno per i loro passi? Decideranno di escludere dai loro desideri tutto ciò che è piacevole ma non è necessario, o affermeranno che ogni cosa è necessaria e che l’uomo ha il diritto di avere ai piedi delle scarpe solide e sane?
[N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi 1972]


Da piccola, tra le prime parole che mi hanno insegnato c’era l’aggettivo “modesto”.

Nei racconti che leggeva la maestra compariva spesso una fanciullina dagli abiti modesti, che abitava in una casa modesta, dove di solito appariva una tavola apparecchiata modestamente (a quel punto io, che non riuscivo bene ad afferrare il significato del termine, se non associandolo magari ai vestiti indossati da Cenerentola prima del principesco matrimonio, immaginavo soprattutto un tavolo abitato da frutta di piccole dimensioni, che mi sembrava il segnale più evidente della “modestia”: non di rado ancora oggi spesso mi scopro a sbirciare la spesa e le mani di chi sceglie la frutta di piccolo calibro, massimo emblema della mia modestia immaginaria appunto).

Di questi tempi l’aggettivo compare raramente, solo nelle cronache locali riferito alla vita o alle abitudini di qualche improvvisato delinquente di provincia (o delle sue vittime). Da quando, però, la fantasticheria silenziosa delle parole è guidata dall’influenza delle immagini televisive che non lasciano spazio a un’adeguata conoscenza del vocabolario né a originali scampagnate dei pensieri, fatichiamo a recuperare il senso delle parole. E della vita.

Quale casa è modesta? Quanti locali e quanta oggettistica richiede la modestia? Una bigiotteria smagliante fa la donna più modesta di un unico monile d’oro ben indossato? E un buco nel calzino di un uomo di potere basta a renderlo modesto? Modestia è avere le scarpe rotte, averne meno degli altri o essere consapevole dei propri piedi? Sarà più modesto credere o dubitare? E che cosa sarà nobilmente modesto, coltivare l’essenziale o pensare che è essenziale realizzare i nostri desideri?

Alla fine mi sembra che siamo diventati tutti invariabilmente modesti: chi possiede e chi no, chi ha parole e chi è muto, tutti accomunati dalla modestia dell’incultura, che ci toglie il respiro della coscienza.

domenica 20 novembre 2011

Mariolina

La spigolatrice (di Sapri) ride come una fanciulla timida,
con più anni di una bambina e meno di una fata.
La bocca aperta lascia fuggire una rondine che troverà casa altrove.
Basta che sorrida.
Non ascolta più nessuno, dentro il bosco dei pensieri che la portano via.
Ma è certa di essere viva e non vuole lasciare la storia a metà.

La storia è sempre a metà, gli occhi non possono andare oltre.
I figli non continuano la vita dei padri,
né i vermi quella degli uccelli dell’aria.
Nessuno può niente per nessuno.
Crede di essere giovane la spigolatrice o forse immortale.
Come il legno di un tavolo da lavoro, non di magie né di poesie.

Le donne di carne amano i fiori anche l’ultimo giorno,
le donne di sale vanno spasso tra i ricordi anche l’ultimo giorno.

martedì 15 novembre 2011

In direzione ostinata e contraria

Serve molta immaginazione per capire la realtà.
(Antonio Lopez Garcías)


Nebbia, foglie che cadono, vestiti pesanti: sottrazioni o addizioni che hanno il medesimo scopo, quello di indurre il desiderio di forme e di colori che non si vedono ma ci saranno o ci sono stati.

Quasi che le stagioni (un tempo travestito di colori è più facile da sentire) fossero solo una palestra dove sviluppare ciò che meno abbiamo, l’immaginazione appunto.

I cani abbaiano per un presagio di pericolo, le fate sanno ciò di cui il mondo ha bisogno, i bambini giocano a quando “eravamo pirati”.

Noi, invece, aspettiamo che ci chiedano aiuto, ci dichiarino l’amore, ci annuncino una malattia, chissà poi se per allergia al reale o amore d’apparenza.

Qualche volta è anche bello attraversare la vita con gli abiti sbagliati.

martedì 8 novembre 2011

Ma

Io aspetto il giorno in cui il Regno dell’Utile sarà rinverdito dalla cultura, dalle metafore, dall’intelligenza.
(Leonardo Sinisgalli)


Il giornale di oggi mi dice che negli Stati Uniti c’è una colpa che non viene mai perdonata ed è quella di apparire indecisive, che significa molto più dell’italiano “indeciso”: meglio un capo di stato che sbagli con decisione a uno che susciti l’impressione di non sapere chi sia e che cosa debba fare, asseriva l’articolo.

Sarà vero per un capo di stato, ma nella coda ordinata dei pazienti in cui mi confondo di primo mattino, mentre guido, durante il lavoro nel pomeriggio, nello studio e nella lettura serale, cerco di capire. Quante sono le persone alle quali si potrebbe rivolgere l’accusa di indecisive: sì, lui certo, e anche loro e poi lei e sua sorella e il mio capo e la collega andata in pensione e l’infermiera all’accettazione e mio marito e l’assessore e il sindaco del paese di A e quello di B. Vale anche la mia candidatura? Anche il parroco a ben pensarci. Anche la persona che ho votato alle ultime elezioni. Mio padre pure, che si assentava dalle decisioni per difendersi dalla paura di scoprirsi inadeguato. Non c’è scampo, l’elenco si allunga dolorosamente perché accompagnato dalle storie di cui è portatore.

Alla fine forse ho trovato: e se gli incerti, i non decisivi fossero tali solo perché imprigionati dalla loro gentilezza, ad essa dedicati, cioè finti singolari, poco pieni di sé, portatori sani dell’attenzione agli altri e al contesto, inclini al compromesso che non umilia, ma che abbraccia? Oggi però, in queste democrazie proclamate e non condivise, nelle nostre famiglie ostentate e poco spaziose forse andiamo solo alla ricerca del neurone muscoloso, utile a vincere senza partecipare.