lunedì 18 luglio 2016

Oggi e sempre


I miei nonni abitavano nelle "corti" e i nonni paterni, in particolare, stavano in una che tutti conoscevano con il nome di curt granda
Molti anni dopo la loro emancipazione in un appartamento di tre locali, bagno in casa e cognome dell’orgoglioso proprietario sulla porta d’ingresso, quando ho visto finalmente il luogo mitico dell’infanzia di mio padre, ho realizzato che era una specie di piazza sterrata (per loro, un cortile, da cui il nome) orlata dalle porte di casa di tutte le famiglie che vivevano affacciate su uno spazio vuoto e accogliente.
Era cambiato poco, mi si diceva: non le dimensioni, che a me sembravano nient’affatto notevoli, non il bailamme dei bambini-figli di tutti lasciati giocare nello spiazzo centrale, non le chiacchiere delle donne che attendevano al ritiro del bucato o alla preparazione della verdura, senza che si potesse capire a quale uscio fossero destinati fagiolini e lenzuola. 
Era cambiato il colore della pelle degli abitanti, quello sì, e la lingua parlata, ma in tutta sincerità sembrava che quelle voci comprendessero benissimo il mondo conosciuto, che stava tutto lì, condiviso come la polvere e gli odori. 
La sensazione e la certezza erano che se fosse accaduta una tragedia, una nascita, una malattia tutti l’avrebbero saputo, in quel momento come settant’anni prima. 
Per dire, se in tempo di guerra una bomba avesse distrutto la metà delle case, l’altra metà avrebbe potuto raccontare le storie dei morti e sarebbe diventata la portatrice sana di un'assenza, così come prima era stata testimone di una presenza. 
Ugualmente, se un terremoto avesse ingoiato un pezzo di corte, l’altra metà avrebbe gridato il dolore incredulo per il destino incomprensibile. 
Forse qualcosa di simile potrebbe succedere anche nei nostri palazzi, dove gli appartamenti ci chiudono quasi alla vista ma non del tutto ai rumori degli altri, che ci lasciano immaginare vite che non sono esattamente la nostra, ma che alla nostra terribilmente assomigliano, per quotidianità, preoccupazioni e speranze. 
Se ci fosse una disgrazia in questi luoghi, appunto. 
Ma se sali su un autobus, vai allo stadio, scendi in metropolitana, prendi un ascensore panoramico, sei in coda in autostrada, entri in un supermercato, visiti un monumento, preghi in una chiesa, ascolti un concerto, ti bruci in spiaggia, stai per imbarcarti su un aereo o una nave, porti alle giostre i figli, ti godi un gelato sul lungomare, studi in biblioteca, prendi un treno al volo, sei al lavoro o in ospedale, mangi al ristorante, ridi o piangi al cinema e succede una tragedia in questi che non mi piace chiamare "non luoghi", perché se ci muori voglio vedere come si fa a chiamarli negandoli, ecco che la vita tua e di tanti potrebbe finire così, s-conosciuta da s-conosciuti, numero di un insieme casuale senza denominatori comuni, salvo l’ultimo e definitivo. 
Chissà se le tragedie di questi giorni possono almeno indurci a prestare maggiore e migliore attenzione ai non-parenti, non-amici, non-colleghi, che incontriamo e ignoriamo nei tanti “prima” di qualunque accadimento nelle nostre frenetiche giornate. 
E questa speranza è la mia forma di resilienza.