L’anima e la ragione si usurano, impossibile pensare alla gloria. Nel momento della vittoria, mi smarrisco. Mi creda dolce amica, con l’eccezione di una battaglia perduta, la più grande disgrazia che possa capitare agli uomini è una battaglia vinta. Io spero di non dover combattere. Mai più”.
Così confidava Arthur Wellesley, il primo duca di Wellington, a Lady Shelley, trenta giorni dopo la battaglia decisiva vinta contro l’imperatore Napoleone Bonaparte a Waterloo, il 18 giugno 1815.
[G. Riotta, Principe delle nuvole, Rizzoli 1997]
Sui giornali di questi giorni compare la foto sorridente di un generale statunitense, uno dei più importanti, il comandante delle forze USA a Bagdad.
Il numero dei riconoscimenti, dei distintivi, delle decorazioni appuntati sul petto è straordinario, tutti per meriti di comando, militari, di addestramento, atti di coraggio,eccellenze varie. Una medaglia è per “operazioni umanitarie”.
Solo in ambito militare è uso mostrare i riconoscimenti.
In fondo, però, tutti apparteniamo a un corpo, a un sistema, a un noi in cui stiamo e di cui siamo rappresentanti.
Vorrei vedere padri e madri con tante stellette quanti sono gli atti di coraggio che li portano a crescere figli e sogni senza deludere gli uni e gli altri.
Ho incontrato magistrati e insegnanti cui un aureo distintivo si dovrebbe conferire ogni volta che aiutano a pensare al giusto e al dubbio.
Conosco medici che sanno leggere corpi e anime per mestiere e per passione, senza mostrare stelle comete sul petto.
I preti, invece, sono diversi tra loro per colore (e quindi anche per meriti?).
Preti e soldati, insomma, portano visibili i segni dei ruoli, della carriera, del valore.
Gli altri no. I nostri noi no.
In fondo se ne capisce la ragione pensando che il quotidiano per noi si replica con tale implicita necessità che rischierebbe più di smentire che di confermare le conquiste del giorno prima. Dovrebbe valere per tutti.
Per parte mia, continuo a preferire una società di lettere minuscole utili al senso comune che può fare a meno di maiuscoli eroismi.
[G. Riotta, Principe delle nuvole, Rizzoli 1997]
Sui giornali di questi giorni compare la foto sorridente di un generale statunitense, uno dei più importanti, il comandante delle forze USA a Bagdad.
Il numero dei riconoscimenti, dei distintivi, delle decorazioni appuntati sul petto è straordinario, tutti per meriti di comando, militari, di addestramento, atti di coraggio,eccellenze varie. Una medaglia è per “operazioni umanitarie”.
Solo in ambito militare è uso mostrare i riconoscimenti.
In fondo, però, tutti apparteniamo a un corpo, a un sistema, a un noi in cui stiamo e di cui siamo rappresentanti.
Vorrei vedere padri e madri con tante stellette quanti sono gli atti di coraggio che li portano a crescere figli e sogni senza deludere gli uni e gli altri.
Ho incontrato magistrati e insegnanti cui un aureo distintivo si dovrebbe conferire ogni volta che aiutano a pensare al giusto e al dubbio.
Conosco medici che sanno leggere corpi e anime per mestiere e per passione, senza mostrare stelle comete sul petto.
I preti, invece, sono diversi tra loro per colore (e quindi anche per meriti?).
Preti e soldati, insomma, portano visibili i segni dei ruoli, della carriera, del valore.
Gli altri no. I nostri noi no.
In fondo se ne capisce la ragione pensando che il quotidiano per noi si replica con tale implicita necessità che rischierebbe più di smentire che di confermare le conquiste del giorno prima. Dovrebbe valere per tutti.
Per parte mia, continuo a preferire una società di lettere minuscole utili al senso comune che può fare a meno di maiuscoli eroismi.