Il lattaio scrisse un
biglietto: “Oggi non c’è più burro, purtroppo”.
La signora Blum lesse
il biglietto e fece i conti, scosse la testa e rifece i conti, poi scrisse:
“Due litri, 100 grammi di burro, ieri lei non aveva il burro e me l’ha messo
ugualmente in conto”.
Il giorno dopo il
lattaio scrisse: “Scusi”.
[P. Bichsel, In fondo alla signora Blum piacerebbe conoscere
il lattaio, Marcos y Marcos 1991]
Nel mio quartiere hanno aperto due punti vendita che non
vendono nulla e tanto meno si scusano.
Sull’insegna non compare il nome di un’attività (“Lavanderia”),
di un mestiere magari raffinato dall’importazione (“Coiffeur”) o anche di un commerciante
che ha sposato la sua merce (“da Gino: la primizia che delizia”).
Se pure non ci fosse odore di affari loschi, se ne dovrebbe
pensare molto male per il solo fatto che una scritta senza pudore li chiama
“compro oro”, dando spazio a una prima persona singolare che non è sinonimo
d’altro se non d’egoismo. Sempre. Non c’è esercizio commerciale serio che possa
denunciare così sfacciatamente il suo maggiore limite.
Niente a che fare questi negozi con oreficerie e
gioiellerie, dove si vendono preziosi a tutti coloro che certo hanno denaro, ma
soprattutto amori e speriamo qualche sogno.
No, i compratori non condividono nulla di tutto questo.
Comprando, lo fanno da chi ad amori e sogni (e anche ai loro
ricordi) ha dovuto rinunciare e forse da chi ha rubato i sogni di qualcun altro.
Ci sono verbi, prima ancora che persone, che affossano
l’economia (e la vita), più che farla girare.