Il 10 maggio del 1978 durante l’intervallo di una giornata
di scuola come tante, leggevo velocemente e con angoscia i tanti articoli del
Corriere dedicati al ritrovamento del corpo di Aldo Moro.
Stava per suonare la campana e mai come in quella occasione
il rientro in classe mi pesava. Non erano quelli i tempi in cui a scuola si
poteva parlare di quanto succedeva nel mondo, per quanto il mondo stesse
cominciando a denunciare evidenti segni di egocentrismo e di desiderio di attenzione,
in lotta con i rigidi programmi scolastici.
Per discutere e cercare di capire, si ricorreva ai
collettivi, alle autogestioni, alle assemblee più o meno autorizzate e lì,
senza maestri e in presunta libertà, si discuteva e ci si arrabbiava, poi si
votava qualche documento da presentare al Preside di turno, certi di non essere
ascoltati e pronti ad arrabbiarsi di nuovo.
Mentre stavo chiudendo il giornale, lessi, credo in ultima
pagina o giù di lì, della morte di un giovane siciliano, Peppino Impastato,
trovato dilaniato sui binari di una linea ferroviaria. Pochissime righe e l’informazione finiva. Se
ricordo bene l’impaginazione del Corriere di quegli anni, la notizia era tra le
cosiddette brevi di cronaca, una
colonnina di lanci di agenzia, che rendevano notizie fatti ritenuti secondari,
seppure fatti.
Ecco - ricordo bene, questo sì, di avere pensato – muore un
giovane in questo modo terribile e la notizia quasi scompare, travolta dal
fiume dei dettagli e dei commenti sull’omicidio Moro.
E già lì mi sembrava una storia sbagliata.
Ma non era un problema politico, non lo era per me,
adolescente di quei tempi. Era un problema etico, che si chiamava prima di
tutto responsabilità personale.
Non sapevo chi fosse Peppino Impastato, mai sentito nominare
prima. E neppure le parole del giornale
facevano pensare all’importanza della sua denuncia civile.
In quel preciso istante, mentre camminavo verso l’ingresso
del corridoio delle aule, pensai solo che no, non volevo, non dovevo dimenticarlo,
quel ragazzo ucciso. Che la mia memoria l’avrebbe adottato, che l’avrei
ricordato ogni volta che ne avessi avuto l’occasione e così l’avrei un po’
risarcito almeno dell’ingiustizia delle poche parole spese per lui.
Non sapevo che lavoro avrei fatto, quali relazioni avrei
avuto in futuro e se mai i miei genitori si sarebbero potuti permettere di
mantenermi all’università. Nulla di tutto questo mi interessava né sapevo, ma volevo
fortemente solo custodire il ricordo di una morte violenta e per giunta mal
comunicata.
Non potevo neppure immaginare, in quel preciso momento di
una mezza mattina di primavera, che cosa avrebbe rappresentato il nome e la
storia di Peppino Impastato per la storia dell’Italia migliore e peggiore, che
come spesso accade sono abbracciate indissolubilmente.
Poi gli anni sono passati e con essi la mia vita di
insegnante, che ha avuto l’occasione non solo di custodire la memoria, le
memorie, ma anche di raccontare e passarne il testimone.
Il ricordo personale dei miei sedici anni mi è nuovamente affiorato
da qualche giorno, da quando tutti abbiamo saputo quanto è accaduto a Giulio
Regeni.
La sua storia personale di giovane e brillante studioso (che
cosa c’è di più politicamente corretto dello studio? quale genitore, quale
insegnante non vorrebbe che i propri figli e studenti si facciano strada con le
armi della propria intelligenza e cultura?), le atrocità a cui è stato
sottoposto (come riusciamo a sopportare l’idea che la nostra quotidianità dal
25 gennaio al 3 febbraio è corsa
inconsapevolmente parallela alla sua sofferenza?), i tentativi di gettare ombre sulla sua vita
(come sempre nei casi di un omicidio scomodo e disturbante), la ragion di Stato
(anche quello Stato per cui in tanti lavoriamo onestamente e lealmente e nella
democrazia del quale siamo cresciuti e crediamo) non possono lasciare
tranquille le nostre coscienze.
Lo dico da insegnante, con il cuore gonfio di dolore, io che
non ho conosciuto Giulio, ma ho avuto la fortuna di incontrare tanti ragazzi in
gamba, tante intelligenze luminose sorrette da una giovinezza curiosa di capire
il mondo e dalla speranza di poterlo
migliorare.
Lo dico da insegnante, che non può accettare l’idea che un
proprio studente sia massacrato per ciò che i suoi studi, ribadisco, i suoi
studi l’hanno portato a essere e a fare.
Lo dico da cittadina, che non riesce a immaginare che ci
possa essere un interesse politico più stringente di quello che ha come
obiettivi la verità e la giustizia.
Lo dico da donna, che si ostina a credere che l’unica
alternativa a tanta violenza (contro Giulio, contro gli innocenti uccisi in
mare, nelle strade o nelle scuole di tutto il mondo, contro l’equità dei
diritti e dei doveri) sia l’educazione, lo studio, la cura (non il maternage,
no, ma proprio quell’attenzione che Simone Weil riteneva la forma più rara e pura
di generosità) e che tutte queste cose insieme possano davvero aiutarci a
immaginare l’orizzonte e il suo dopo e a guardare le giovani generazioni con
meno vergogna di quella che oggi proviamo per non averle difese dai predatori
di futuro.
Vorrei che ancora una volta la scuola, il primo livello di
questa tanto bistrattata realtà, quello che “si fa” tutti i giorni nelle aule,
diventasse ancora una volta il baluardo della memoria e dell’affermazione della
verità.
Per quanto mi riguarda, l’avevo promesso un giorno a Peppino
e oggi lo prometto a Giulio, in direzione ostinata e, se necessario, contraria.