Stamane ho letto la lettera della madre di Giulio Regeni pubblicata da un quotidiano.
Come faccio ogni giorno, ovunque mi capiti, anche oggi ho letto di come procedono le indagini, e ho cercato di immaginare che cosa potrà accadere ancora, impegnandomi a mantenere fede all’esercizio non semplicemente della memoria, ma soprattutto della cura.
Oggi, però, ho letto le parole di una madre che in questo dolore non dimentica la sua ombra di insegnante e quelle poche righe mi hanno spinto a dare voce a qualcosa che tengo da mesi nel cuore, che è affiorato in questo periodo di lontananza dalla scuola in prima linea e che ha cominciato a bussarmi dentro prepotentemente nel novembre scorso, all’indomani della tragedia di Parigi, durante le tante manifestazioni di solidarietà agli e dagli stranieri e ascoltando il discorso del padre di Valeria Solesin.
Ma, siccome i pensieri non nascono sotto i cavoli e forse li portano davvero le cicogne viaggiando da un Paese all’altro, in questi mesi ho rinnovato il dolore per quanto accaduto nelle scuole del Ruanda e di Beslan, nelle università della Nigeria e del Kenia, nelle scuole del Pakistan e dell’Afghanistan. E, dopo un viaggio intorno al mondo delle aule, ho concluso che stare a scuola è un onore e insegnare è un mestiere diverso da tutti gli altri. Che va proprio in un’altra direzione, cioè, rispetto a quello che il mondo il più delle volte vorrebbe.
Altri lo sapevano già. Ma io l’ho capito per bene solo ora.
A che cosa mi è servito stare lontana dalle facce irriverenti e dalle voci sgraziate di ragazzacci aspri e voraci, dalla routine fatta di compiti, correzioni, progettazioni che sembra sempre sul punto di travolgerti, quando annaspi nel mezzo di color che sono sospesi tra i banchi e la vita?
A capire che sono e resterò una insegnante e che voglio proprio esserlo e rimanerci.
Che se c’è una speranza di cambiare il mondo, quella sta a scuola, nascosta dentro un bambino da stanare o nella voce sfinita di una maestra, che è poi è uguale.
Che si impara a chiamare le cose con il loro nome a scuola, prima che in ogni altro luogo. E infatti si parla di analfabetismo di ritorno, dalla scuola e non per la scuola, con buona pace degli arroganti.
Che quando un altro adulto ti chiama professoressa, senti l’orgoglio non per chi sei tu, ma per chi sono e sono stati i tuoi studenti, i tanti ormai cresciuti, andati con le loro gambe nel mondo, che stanno percorrendo anche più di quello che abbia fatto tu, che pure sei sempre un po’ con loro, perché li hai visti piccoli e hai cercato di innaffiare la loro voglia di sapere. E qualche volta hai sbagliato o rischiato di farlo, perché non tutte le piante hanno bisogno della stessa dose di acqua e dello stesso terriccio e ti tormentavi per questo.
Che quando qualcuno diventa famoso, tu sorridi e ricordi quando ha pianto o si è arrabbiato per un brutto voto e hai dovuto motivarlo a continuare a credere in se stesso. E alla fine ci sei riuscita, ti dici in silenzio, se adesso fa quello che fa.
Che anche quando non diventano celebrità, ma li rivedi per strada o a fare la spesa e ti presentano ai loro figli e ti dicono, “Ma lei insegna ancora, vero? Mi dica di sì”, capisci, ormai da professoressa nonna, che loro sapevano che non imbrogliavi e ora diventati genitori sperimentano in prima persona che prima di tutte le educazioni del mondo, ci vuole l’educazione con e per se stessi.
Che quel detto che chi non sa insegna, è una gran boiata, perché, in genere, chi non sa millanta e a scuola si può fingere per niente o per poco, perché i ragazzi sanno che le bugie fanno venire il naso di legno e ti tengono d’occhio se mai qualcosa cambia nel tuo profilo, mentre stai con loro. Tra adulti, invece, niente di più facile che la parola non mantenga la parola.
Che anche quando ti capita un dolore enorme, non puoi proprio dimenticarti di essere una insegnante, perché prima viene la preoccupazione di trovare le parole giuste per raggiungere chi ti sta davanti e spiegare, capire facendo capire, ringraziare e spronare tutti a cercare l’altra faccia del dolore che si chiama sempre verità e così forse puoi andare a letto con il cuore pesante ma la speranza che dalle parole nascano bambini fiori e bambini querce, per abbellire e rendere forte questo mondo.
Perché la scuola è davvero l’intero e tu ci stai dentro per sempre, insieme con i tuoi studenti e i tuoi figli.