Non avevo proprio intenzione di scrivere di politica in questi giorni.
Ma la storia delle candidature degli uni e degli altri, dei grandi e dei piccoli mi ha fatto un po’ specie.
Largo ai giovani, spazio alle persone che si sono distinte nei vari campi del sociale (e non solo), si dice, anzi dicono un po’ tutti. Già i più accorti hanno colto, però, qualche cognome pesante, di denaro e fama ereditata soprattutto, presente in ogni lista, anche nel proclamato nuovo.
Forse anche i candidati sono come le notizie: meritano la prima pagina solo quelle politiche e che cosa di meglio di candidati da prima pagina per la politica?
Eppure credo che anche in questo, in questo in particolare si sarebbe potuto fare qualcosa di nuovo e diverso.
Tutti inseguono uomini e donne simbolo, non importa di cosa, basta che siano simboli di un tempo, di un luogo, di una memoria. Dopo aver dichiarato che intende congedare l’esperienza, la politica sceglie di adottare il simbolo come faro per il suo futuro.
Solo che simboli si diventa dopo, di solito, che qualcosa si sia fatto o sia accaduto.
È chiaro, si potrebbe rispondere, non si può diventare riconoscibili per gli altri se non si è vissuto qualcosa di notevole e significativo. Prima la vita e poi la politica, dunque, come se quest’ultima fosse un sistema parallelo e secondario alla prima alla cui rincorsa si getta senza mai la speranza di raggiungerla.
Sarà possibile un giorno che la politica scopra che la sua stessa ragione d’essere consiste nell’anticipare e prevenire o se non altro dare voce alla vita prima che essa si ribelli, si esalti, si sfinisca con il solito quotidiano ceduto all’antipolitica?
È necessario che muoiano in sette contemporaneamente perché si pensi che i lavoratori debbano avere una legittima rappresentanza in Parlamento? O che un ricercatore fugga all’estero, e magari sia aiutato da altri a condurre a buon fine i propri studi sperimentali, per essere candidato a migliorare la prospettiva dell’università in Italia?
Una politica davvero nuova si chiede che cosa può fare prima per e dei cittadini, rifiuta la logica dell’inseguimento, sceglie i propri candidati tra coloro che prima – che muoiano o ereditino, che vincano Nobel o si arricchiscano - possono essere importanti per il dopo – loro, di tutti, dello Stato -.
Vorrei, insomma, una politica profetica e non compiacente, illuminante e non da illuminare, capace di promuovere il coraggio e la sfida dei valori e non preoccupata solo di vivere e insegnare l’autodifesa.
In direzione ostinata e contraria rispetto alle tendenze anche di questa stagione.
"fabbricare, fabbricare, fabbricare / preferisco il rumore del mare / che dice fabbricare fare e disfare / fare e disfare è tutto un lavorare / ecco quello che so fare. scrivete. addio" (D. Campana, Cartolina postale del 13 ottobre 1916, in S. Aleramo, D. Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, Feltrinelli, Milano 2000, p. 72)
mercoledì 20 febbraio 2008
martedì 12 febbraio 2008
Rumors
Chi non sa, insegna
Chi lavora, non sa fare altro
Chi ama, non sa stare solo
Chi ascolta, non sa parlare
Chi gioca, non vuole crescere
Chi sceglie, non si fida
Chi cammina, non sa correre
Chi ride, non è serio
Chi è buono, è solo quello
Chi è onesto, l'occasione non l'ha reso ladro.
Chi lavora, non sa fare altro
Chi ama, non sa stare solo
Chi ascolta, non sa parlare
Chi gioca, non vuole crescere
Chi sceglie, non si fida
Chi cammina, non sa correre
Chi ride, non è serio
Chi è buono, è solo quello
Chi è onesto, l'occasione non l'ha reso ladro.
martedì 5 febbraio 2008
Votantonio
Per i più l'atto del voto occupava un posto minimo nella coscienza, era una crocetta da segnare con la matita su di un segno stampato, qualcosa che si doveva fare come era stato loro insegnato con tanta cura [...]. Per altri invece, più emotivi, oppure indottrinati secondo un diverso sistema didattico, la votazione pareva si svolgesse in mezzo a pericoli e inganni; tutto era motivo di diffidenza, d'offesa, di paura.
[I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, Oscar Mondadori 1994]
Daniel Pennac sostiene da tempo che il verbo leggere non ha imperativo. Come il verbo amare, d’altro canto, ma in questo caso non serve che qualcuno lo dica, basta respirare o ripensare alle infelicità amorose degli eroi di carta di ogni letteratura.
A questo proposito, Patrizia Valduga scrive che non può leggere un romanzo “che valga la pena” perchè un romanzo deve dare gioia, accidenti, non pena!
Noi, invece, tra poco, dovremo assolvere all’imperativo del voto sperando proprio che ne valga la pena.
Pochi verbi sono più carichi di oneri e sofferenze inerenti e conseguenti al verbo votare.
E non penso tanto al nostro fastidio, che sarà mai quell’imperativo sfacciato che ci chiama al voto dalle locandine elettorali come se fossimo tutti soci e conniventi nella buona e nella cattiva sorte, quanto al lavoro tutt’altro che oscuro e assai compromettente del candidato, che nell’invito alla (sua) scelta deve sorreggersi con sorrisi, proclami, parole che di norma hanno ben altro peso nella società civile.
Immaginate la frustrazione di chi promette libertà e diritti e poi si vede costretto a proporre leggi-porcata.
Immaginate il tormento di chi oggi dichiara guerra ai privilegi e sarà coinvolto, pena il marchio infamante della diversità, nelle nomine di giudici e primari.
Immaginate l’angoscia di chi al posto del senso del dovere e di rispetto verso la Costituzione e il popolo italiano che oggi sbandiera sarà obbligato a servirsi per interessi privati dell’onorevole ruolo che ricoprirà.
È al dramma di tutti costoro che dobbiamo pensare quando, come si dice, nel segreto dell’urna, obbediremo al nostro modesto dovere.
Questa volta potremmo concederci noi un gesto di generosità verso coloro che con tanta prodigalità si sono occupati di noi in questi ultimi dieci, quindici anni: facciamo in modo che nessuno di loro soffra ancora per colpa nostra.
[I. Calvino, La giornata di uno scrutatore, Oscar Mondadori 1994]
Daniel Pennac sostiene da tempo che il verbo leggere non ha imperativo. Come il verbo amare, d’altro canto, ma in questo caso non serve che qualcuno lo dica, basta respirare o ripensare alle infelicità amorose degli eroi di carta di ogni letteratura.
A questo proposito, Patrizia Valduga scrive che non può leggere un romanzo “che valga la pena” perchè un romanzo deve dare gioia, accidenti, non pena!
Noi, invece, tra poco, dovremo assolvere all’imperativo del voto sperando proprio che ne valga la pena.
Pochi verbi sono più carichi di oneri e sofferenze inerenti e conseguenti al verbo votare.
E non penso tanto al nostro fastidio, che sarà mai quell’imperativo sfacciato che ci chiama al voto dalle locandine elettorali come se fossimo tutti soci e conniventi nella buona e nella cattiva sorte, quanto al lavoro tutt’altro che oscuro e assai compromettente del candidato, che nell’invito alla (sua) scelta deve sorreggersi con sorrisi, proclami, parole che di norma hanno ben altro peso nella società civile.
Immaginate la frustrazione di chi promette libertà e diritti e poi si vede costretto a proporre leggi-porcata.
Immaginate il tormento di chi oggi dichiara guerra ai privilegi e sarà coinvolto, pena il marchio infamante della diversità, nelle nomine di giudici e primari.
Immaginate l’angoscia di chi al posto del senso del dovere e di rispetto verso la Costituzione e il popolo italiano che oggi sbandiera sarà obbligato a servirsi per interessi privati dell’onorevole ruolo che ricoprirà.
È al dramma di tutti costoro che dobbiamo pensare quando, come si dice, nel segreto dell’urna, obbediremo al nostro modesto dovere.
Questa volta potremmo concederci noi un gesto di generosità verso coloro che con tanta prodigalità si sono occupati di noi in questi ultimi dieci, quindici anni: facciamo in modo che nessuno di loro soffra ancora per colpa nostra.