“Mi tieni il bambino?”
disse Maria a Giuseppe, porgendogli un fagotto di stracci più pesante di quanto
potesse lasciare immaginare la sola stoffa. E Giuseppe lo prese, per la prima
volta, e lo tenne con imbarazzo (“non so se lo so fare”), poi più sicuro e stupito
che essere utile potesse essere così piacevole.
[AA. VV., Quando le foglie attraversano la strada]
Se Maria e Giuseppe fossero diventati
nonni, si sarebbe detto che l’avessero inventato loro, il lavoro nero.
Maria avrebbe cucito gli abiti di Figlio, nuora e nipoti e magari qualche volta avrebbe anche lavato
per loro. La mattina avrebbe aspettato il più piccolo dei nipoti sulla soglia
di casa, pronta a riceverlo dalle braccia della mamma in perenne ritardo nel
suo lavoro. In estate avrebbe fatto conserve e passate per la stagione
fredda e ne avrebbe regalato a quel Figlio, troppo indaffarato per trovare
frutta e verdura adatte ai bambini. La domenica avrebbe cotto il pane per tutti
e avrebbe smacchiato con pazienza una tonaca davvero inguardabile del Figlio,
dopo una settimana di deserto.
Giuseppe avrebbe aggiustato la
carriola del nipote più grande e avrebbe insegnato al piccolo ad avere rispetto
delle formiche. Avrebbe portato ai poveri i vestiti dismessi e avrebbe
custodito il segreto di quel giovane morto per strada, che lui solo aveva osato comporre in un sudario. Avrebbe raccolto la
legna necessaria a Maria per cuocere e avrebbe cercato per lei i fichi più dolci.
Quando i calzari del Figlio fossero stati troppo rovinati, Giuseppe avrebbe
trovato un rimedio (le colle non avevano segreti per lui) per continuare a
indossarli, evitando al Figlio l’accusa di sperperare denaro non suo.
Questo lavoro sommerso dal tempo e
dalla fretta avrebbero fatto Maria e Giuseppe, proprio come due vecchi, innamorati del Figlio e delle promesse della vita.