lunedì 23 settembre 2013

Lavoro nero, anzi no


“Mi tieni il bambino?” disse Maria a Giuseppe, porgendogli un fagotto di stracci più pesante di quanto potesse lasciare immaginare la sola stoffa. E Giuseppe lo prese, per la prima volta, e lo tenne con imbarazzo (“non so se lo so fare”), poi più sicuro e stupito che essere utile potesse essere così piacevole.
[AA. VV., Quando le foglie attraversano la strada]

Se Maria e Giuseppe fossero diventati nonni, si sarebbe detto che l’avessero inventato loro, il lavoro nero.
Maria avrebbe cucito gli abiti di Figlio, nuora e nipoti e magari qualche volta avrebbe anche lavato per loro. La mattina avrebbe aspettato il più piccolo dei nipoti sulla soglia di casa, pronta a riceverlo dalle braccia della mamma in perenne ritardo nel suo lavoro. In estate avrebbe fatto conserve e passate per la stagione fredda e ne avrebbe regalato a quel Figlio, troppo indaffarato per trovare frutta e verdura adatte ai bambini. La domenica avrebbe cotto il pane per tutti e avrebbe smacchiato con pazienza una tonaca davvero inguardabile del Figlio, dopo una settimana di deserto.
Giuseppe avrebbe aggiustato la carriola del nipote più grande e avrebbe insegnato al piccolo ad avere rispetto delle formiche. Avrebbe portato ai poveri i vestiti dismessi e avrebbe custodito il segreto di quel giovane morto per strada, che lui solo aveva osato comporre in un sudario. Avrebbe raccolto la legna necessaria a Maria per cuocere e avrebbe cercato per lei i fichi più dolci. Quando i calzari del Figlio fossero stati troppo rovinati, Giuseppe avrebbe trovato un rimedio (le colle non avevano segreti per lui) per continuare a indossarli, evitando al Figlio l’accusa di sperperare denaro non suo.
Questo lavoro sommerso dal tempo e dalla fretta avrebbero fatto Maria e Giuseppe, proprio come due vecchi, innamorati del Figlio e delle promesse della vita.


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