Dagli incontri con sua madre T. rientrava carico di odio per noi e di rancore per lei.
A letto, la sera, cominciava una specie di danza sonora: sbuffava, mugolava sommesso poi sempre più forte, violento fino a urlare suoni sconnessi e laceranti.
Inutile cercare un senso compiuto in quei fiati che davano voce al dolore di non poter essere ogni giorno anche figlio, non solo creatura, della propria madre.
Quel male primitivo lo disarcionava dalle parole e dagli affetti.
Una vecchia un giorno mi disse:” E’ il dolore, il dolore vivo che ha dentro. Finchè vive, non parla. Il dolore parla solo da morto. Prova tu a parlare per lui, per loro, per il bambino e il suo dolore”.
E sera dopo sera raccontavo storie e passato, immaginavo un futuro che avrei ignorato, inventavo favole che gli erano mancate, mentre T. si calmava e ascoltava tutto e sempre, con il male in un silenzio di tregua più che di resa, pronto a ricominciare i gemiti se tacevo solo pochi secondi.
Ma se la vecchia aveva ragione, le parole avrebbero vinto, bastava scovare quelle giuste e, forse un giorno, nostre.
Invece no, ogni volta come la prima e una settimana come l’altra, senza miglioramenti magari piccoli ma duraturi.
Cominciai a chiedermi allora dove finissero quelle parole, tante, diverse che pronunciavo con passione e tenerezza e che pure venivano ascoltate con avidità e cura, lo sentivo.
Dove si infilavano, perché si sottraevano al compito, in quale penombra si isolavano, non l’avrei mai saputo.
Tutto uguale, tutto come sempre per noi, T. con il suo dolore vivo, io con la mia speranza, lei sì, morente.
Le parole forse a spasso, libere di essere inutili e gratuite.
Perché le parole, forse, non c’entrano quasi mai con la vita.
Nessun commento:
Posta un commento