martedì 18 settembre 2007

Servabo

Qualche tempo fa, un giornalista di valore, oggi direttore di un importante quotidiano, alla domanda su quali fossero i criteri per cui una notizia arrivasse e (soprattutto) rimanesse in prima pagina, rispose che, su tutti, valeva il carattere della “politicità”, dell’interesse per il bene collettivo e pubblico. Questo valeva ovviamente per le notizie dagli interni o dagli esteri, ma anche per la cronaca nera, per gli spettacoli e così via.
Un delitto, esemplificava, passata l’eco del momento, è oggettivamente qualcosa che riguarda i protagonisti, i familiari e gli inquirenti. Può ritornare agli strilli dei riflettori se, magari, durante le indagini emergono degli elementi tali per cui lo si può collocare in una dimensione di criminalità organizzata in un determinato territorio o se, grazie alla raffinatezza delle tecnologia a disposizione, si scoprono piste di indagine prima insospettate, dando luogo dunque a una “nuova” notizia.
A tutto questo ripensavo ascoltando e leggendo le cronache sulla chiamata a raccolta di Grillo, in piazza prima, attraverso le riprese televisive poi, sul blog sempre.
I commenti la considerano comunque espressione di antipolitica, e che si sia schierati pro o contro le parole e i proclami del comico, in realtà la notizia si sta comportando come la più politica di questi tempi per spazio e tempo occupati su ogni fonte di informazione.
Non so se intenzionalmente sia l’una o l’altra cosa, ma mi sorprendo di come la parola antipolitica sia comparsa solo in questa circostanza, come se questo fosse l’evento più oppositivo e contrapposto alla costituzione, organizzazione e amministrazione dello stato.
A me sembra che da lungo tempo si stiano verificando manifestazioni di antipolitica e, ormai, all’interno della cosiddetta stessa politica: la nascita e la crescita della Lega Nord, la fondazione e l’affermazione di Forza Italia, il loro rispettivo e inquietante radicamento in alcune regioni del Nord e in Sicilia, per esempio.
Tutte circostanze che non solo non si è mai avuto il coraggio di chiamare antipolitiche, ma alle quali si è sempre riservato uno spazio e una dignità politici.
Forse allora l’antipolitica diventa politica quando asseconda i desideri della gente.
Ma desiderare non è negato alla politica, non c’è affatto bisogno che cediamo le nostre aspettative in cambio di progenitori celti; I have a dream diceva M. L. King e non portava cravatte Marinella.
Io penso a volte che la stessa gente sia antipolitica, quando riempie i carrelli di cibi che non ce la farà a consumare, cambia telefoni e computer pur funzionanti con nuovi più smaglianti modelli o acquista auto più veloci del limite di velocità, quando pretende di avere comunque e sempre ragione o tratta i figli come proprietà privata o vive la settimana in attesa solo della sua vacanziera fine.
E sono sempre più convinta che antipolitici siano molti telegiornali, giornali e trasmissioni che, appunto, compiacciono e alimentano i desideri della gente, in un rapporto vizioso e morboso che ci relega in un ruolo sottomesso a chi può decidere ciò che possiamo e dobbiamo desiderare.
Antipolitico è con-fondere i bisogni con i desideri e promettere che ogni desiderio sarà realtà.
Sono andata a rileggermi le parole di Luigi Pintor quando scrisse che la sua disposizione a subire l’influsso della guerra forse venne acuita dalla scritta che trovò sul ritratto di un antenato: servabo. «Può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile. Ma conservare o servire sono termini sconvenienti, che implicano soggezione, il senso di un limite, un vincolo».
Sentire l’influenza della politica, scegliere la politica e non l’antipolitica significa, in fondo, chiedere che la politica coincida con una sola parola: servabo.

Nessun commento: