domenica 21 settembre 2008

Mani di fata

[…]
Al pane e all’acqua pure rassomigliano,

al frumento, ai paesi della luna,
al profilo della mandorla, al pesce selvaggio
che palpita argenteo
sulla strada
delle sorgenti.
[P. Neruda, Ode alle sue mani, Passigli]

La rivista cui era abbonata mia madre era un simbolo d’irraggiungibilità.
Sognavo e tentavo di ricamare alla maniera di, ma non riuscivo. Non sarei mai riuscita. Impiegai molto tempo prima che accettassi l’idea che non avrei primeggiato in quella arte che mi avrebbe resa ben accetta ai suoi occhi.
Anche mio padre aveva un affetto di carta. Aspettava ogni fine mese l’arrivo di un foglio di viaggi che gli avrebbe raccontato di posti mai visti e che lo avrebbe trasportato in scenari improponibili rispetto a quelli che lui frequentava. A dire il vero, non so neanche quanto abbia letto realmente quelle pagine, non l’ho mai visto seduto assorto nella lettura, certo era affascinato dalle mille fotografie esotiche e inusuali per l’epoca che ogni tanto ci mostrava o citava durante un pranzo o una discussione sulle nostre conoscenze geografiche. Peraltro, non amava guidare né viaggiare davvero.
Ciascuno di loro aveva insomma le sue immagini del cuore, altri luoghi per papà, altre mani per la mamma. Era l’altrove di una generazione in attesa. Era un modo di lasciare la guerra e di conoscere le ricchezze della pace.
Fino a un certo punto ho pensato che quei sogni fossero anche i miei, che le mani delle fate fossero proprio quelle capaci di abbellire le case e che i lillipuziani fossero a portata di posta.
Invece un giorno, lasciata la zavorra dell’indotto, credo di aver capito.
Di fata sono quelle mani che lavano i corpi immobili nella malattia quando i parenti se ne vanno. Di fata è la mano che sostiene un vecchio sull’autobus, che allaccia una stringa altrui. Di fata sono le mani di chi accarezza un cane e abbraccia per primo, di chi taglia le unghie a bambini di uno o cento anni, di chi disinfetta un dolore.
Di chi prende la tua tra le sue e sta zitto senza giudicare.
Le mani di fata sono mani assolute, senza faccia e senza nome. Mani improbabili, dunque, senza ricercatezza e pretese.
Mani di fata sono quelle di mia nonna a fine giornata, abbandonate in grembo come gusci di noce vuoti per il dispiacere di dover aspettare il domani per agire e aiutare.
Queste sono le mani di fata che ho voglia di ricordare e di incontrare.

lunedì 8 settembre 2008

Oltre

Se noi pensiamo ad una società molto complessa, è una società dove c'è molta libertà ma anche molto disordine. 
Allora, se vogliamo rispettare la complessità senza la coercizione, l'unica cosa è il sentimento di comunità e di fraternità.
[E. Morin, Educare gli educatori. Una riforma del pensiero per la democrazia cognitiva, EDUP 2008]

Si dice che la vita sia fatta di incontri e di occasioni. Tanto basta per cambiare l’ordine e il corso della nostra camminata sulla terra. Tanto basta anche per condizionare le nostre idee e il nostro modo di pensare e agire.
Se in un pronto soccorso riceviamo cure adeguate che ci salvano la vita, saremo pronti a elogiare i medici del luogo e di quell’ospedale in particolare. Se, al contrario, la diagnosi e la cura non sortiranno nessun beneficio, passeremo dalla parte di coloro che denigrano, assieme alle cure ricevute, anche l’intera struttura e i suoi addetti.
Se, da piccoli, presumiamo di avere subito le angherie o, magari, le inefficienze degli insegnanti, sarà facile afferrare la prima pietra per scagliarla contro una categoria che disprezziamo e consideriamo insignificante e forse dannosa.
Se, invece, i nostri figli tornano da scuola soddisfatti e lo sono altrettanto di andarci di nuovo il giorno dopo, elogiamo maestre e professori come portatori sani del sapere.
Si potrebbe continuare all’infinito. Anche l’idea di maternità e paternità che abbiamo sono condizionate dalla nostra esperienza. Per non parlare poi del nostro rapporto con la giustizia o con il sacro.
Questo accade nel quotidiano, nel privato.
Ma dello scarsa correttezza del nostro comportamento non ci rendiamo conto fintanto che essa non diventa metro e guida del nostro agire pubblico e quindi politico.
Di più. Se non ci rendiamo conto che questo atteggiamento oggi è diventato politico, che “fa” politica, non saremo in grado di cogliere la differenza che passa tra un ideale, un progetto per realizzarlo e una semplice esigenza di rimuovere, promuovere, difendere, ri-vendicare ancora una volta noi stessi e il nostro vissuto.
Oggi, le scelte del paese sembrano essere ispirate soprattutto a questa angusta visione della società e prima ancora della vita, angusta perché in balia di ciò che capita a me, che è capitato al mio vicino, che accadde ai miei genitori, che potrebbe accade ai miei figli, e che, quindi, è da temere, da combattere, da evitare.
Quale che sia il bene pubblico, esso non passa necessariamente dalle nostre grandi o piccole esigenze, dalle nostre limitate esperienze. Ognuno ha le proprie e ha gli stessi diritti di tutti in nome di queste. Non di più, non di meno.
Dunque non si può governare in nome degli esercizi quotidiani compiuti, come se l’altrui fosse il nostro e gli altri fossero obbligati a essere tanti io.
In politica ciò che dovrebbe contare è piuttosto quanto si è disposti a perdere l’esperienza di sé per diventare esempio condivisibile dalla maggior parte dei cittadini.