lunedì 26 gennaio 2009

Gennaio

Gennaio deve il suo nome a Giano, infida divinità pagana dalla doppia faccia, a cui fu dedicato perché conviene ingraziarsi con lusinghe chiunque abbia potere. Doveva essere molto temuto per meritare il primo mese del calendario. Non perciò il dio cambiò carattere e gennaio resta il mese più freddo.
[Luigi Pintor, Il nespolo, Bollati Boringhieri 2001]

La mia amica Teresa ripensava ai suoi quaderni di bambina.
Gennaio era il mese in cui, dopo le pagelle, consegnavano le medaglie al quaderno più ordinato e meglio disegnato. Di solito vinceva senza fatica. Bella grafia, dita svelte e mente acuta facevano di lei la scolara ideale per arrivare prima, nelle soluzioni di un problema come nelle gare per bambini bravi.
In quel momento ricordava le sue pagine pulite, senza macchie o cancellature, così diverse da quelle degli altri compagni e provava ancora la sensazione piacevole di chi è in pace con se stesso, di chi ha fatto il proprio dovere.
«Mamma, come possono rovesciare sempre l’inchiostro mentre scrivono?”, si spazientiva a casa, raccontando quegli episodi che la sorprendevano sempre.
«I bambini sono un po’ distratti, a volte. Ma capita anche ai grandi. Tutti possono distrarsi. Tuo padre in ufficio dice che è abbastanza comune, sai?», rispondeva sua madre, preoccupata che l’incredulità della figlia non si trasformasse in sofferenza per sé e insofferenza per gli altri.
Ma Teresa non correva questo rischio, non ostentava bravure né si esaltava.
La bontà non ha parole né spiegazioni. La bontà è. Teresa era buona e basta. Forse l’aveva ereditato da sua madre, infermiera di cuore, prima che di mano. E infatti quella che sembrava impazienza era soprattutto dispiacere.
«Sai, ogni tanto penso alle parole coperte dal nero che si rovescia su di loro – insisteva con sua madre – e non è giusto. Con tutta la fatica che fanno, che facciamo per tirarle fuori, per farle capire agli altri…poi è come se annegassero. Rimane la macchia nera e qualche pezzo di a, di f, di t. Ma non si capisce più niente. La frase si rompe. Sì, magari riscrivi, però su un altro foglio. E non è più come prima. E se fossi anch’io una lettera dell’alfabeto, mamma? Ci pensi? E se mi raggiunge una macchia nera? Che cosa faccio? Cosa divento, come sto?».
Sua madre la guardava in silenzio.
«Ma come si sta in una macchia, secondo te? Si può ancora respirare dentro una macchia nera?», incalzava indomita.
Oggi Teresa ripensava alle macchie buie che paralizzano la vita delle parole e che schiacciano i pensieri. Sua madre accanto che le teneva la mano.
Non riusciva neanche a piangere il suo uomo, così per sempre fermo davanti a lei.
Ripensava solo ai quaderni, ai gennaio di un tempo, alle macchie che erano state e alla pozza di nero che le aveva allagato l'amore. Si poteva intravedere a mala pena solo la a.
Troppo poco per essere ancora una parola. Quasi nulla per tornare a essere vita. Abbastanza per una risposta, solo ora, alle domande di un tempo.

martedì 20 gennaio 2009

Bugie

Esagerúma nenta! («Non esageriamo!»)
Un detto del Monferrato ricordato da N. Bobbio ed E. Bianchi

Che bel bambino
I bambini sono tutti uguali

Sei uno splendore
Ti trovo assolutamente in forma

Ci sentiamo presto
Rivediamoci, dai

Carissimo
E’ stato un immenso piacere

Ho fatto tutti i compiti
Ho quasi finito

Che bella casa
La tua cucina è squisita

Ci penso io
Non c’è problema

Le sta divinamente
È davvero un’occasione

Torno presto
Non ho fatto tardi

Farà la vita di sempre
Sarà come prima, vedrai

Sei sempre bella
Ti amo (se non lo è lo diventa)

Dio vede e provvede.








lunedì 12 gennaio 2009

Moschiese

Ai cristiani, ai musulmani e ai laici di buona volontà la storia fornisce il modello di tempi nei quali la convivenza era non solo possibile, ma franca e cordiale: dall’impero mongolo alla Spagna due-quattrocentesca al sultano moghul di al-Akbar in India. Ma i modelli storici restano lettera morta, se non si afferma la volontà di seguirne i suggerimenti, di far vivere il seme che essi hanno piantato affinché fruttificasse.
[Franco Cardini, dalla postfazione di M. Jevolella, Non nominare il nome di Allah invano, Il Corano libro di pace, Boroli Editore 2004]

Amleto, forse lei se lo ricorda, era persuaso della vanità delle «parole» che non coinvolgessero tutte le persone. Il mio parroco si è lamentato con la mia figliola di dire cose non molto diverse da quelle che dico io; ma che nessuno lo ascoltava come invece ascoltano me. 
Aspetto l’occasione per dirgli: caro monsignore, «si duo dicunt idem non est idem».
La Chiesa ha sempre trascurato il problema della predicazione creando addirittura dei retori di mestiere capaci di rendere falso lo stesso Vangelo.
Questo è uno dei problemi fondamentali del falso di tutte le società che credono di poter investire di funzioni sacrali o comunque di comando o di educazione uomini assolutamente insufficienti.
(Biagio Marin, Fame di Dio, Lettere e ricordi, La Locusta)

Quando negli anni Settanta gruppi di studenti cattolici di tutta Italia chiedevano nelle scuole superiori statali uno spazio per pregare prima dell’inizio delle lezioni e un po’ ovunque il laboratorio di chimica, l’aula del ricevimento parenti, l’auditorium o la palestra diventavano chiese per caso e per poco, nessuno lo impedì.
Ci furono dibattiti, certo, ma quegli spazi pubblici diventarono dappertutto santuari a tempo dove risuonavano salmi e brani di vangelo.
Quando, a partire dagli stessi anni, uomini e donne testimoni di Geova suonavano ai citofoni di privati cittadini, gli interpellati dalle loro case rispondevano in malo modo e spesso li insultavano per averli disturbati magari in una tranquilla domenica mattina in famiglia.
Oggi continuano ad accadere entrambe le cose. E spesso chi fa l’una pratica con convinzione anche l’altra.
Oggi poi accade, sempre più spesso, che donne e uomini famosi si dichiarino buddisti e siano amati e vezzeggiati anche per questo.
Oggi però altri cercano un luogo dove pregare e non lo ottengono. A volte lo fanno sui marciapiedi, luoghi appunto deputati ai piedi che marciano velocemente verso gli eccessi quotidiani e quindi mal sopportano le ginocchia ferme di chi si china davanti al suo dio. Qualche volta le piazze pubbliche si riempiono dei senza casa, la propria o del proprio dio, ma di solito si tolgono panchine agli uni e si chiedono scuse agli altri.
Si può fare di meglio, coraggio.
Aspettiamo citofoni predisposti solo per risposte cortesi e moschiese dove dio si chiama solo dio e i suoi fedeli tutti e solo “noi”.

giovedì 1 gennaio 2009

Avvento

“Prof…”
“Dimmi”
“Posso usare avvenente per dire che sta per arrivare?

E un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie, […]
là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.
E allora, come sentì vicino Odisseo,
mosse la coda, abbassò le due orecchie,
ma non poté correre incontro al padrone.
E il padrone voltandosi, si terse una lacrima
[…]
[Omero, Odissea, libro XVII, vv. 291-304, versione di R. Calzecchi-Onesti, Einaudi 1981]

Poi chi stava per venire è arrivato: il Natale, un affetto lontano, l’anno nuovo.
Ma l’arrivo non esaurisce l’attesa, se possibile anzi la nutre e l’accresce perché ogni attesa risolta chiude un tempo conosciuto e apre uno spazio aperto all’immaginazione e al desiderio di futuro.
Ho capito – forse – l’attesa solo da poco, da quando vedo Musonero aspettare ogni mattina il suo padrone sull’ultimo gradino della piccola scala che conduce alla porta d’ingresso di una villetta a bordo strada.
Musonero non sa che lo chiamo così, non mi ha neanche mai visto quel cane color temporale.
Ogni mattina, a giorno appena fatto, passo in macchina davanti al cancello della casa che abita con i suoi umani e lo trovo sempre lì, nella stessa posizione: la figura protesa come verso una meta, le zampe posteriori leggermente oblique pronte a sostenere lo scatto in avanti che sembra sul punto di esplodere, il muso affilato, più nero del nero del corpo, in grado di annusare il momento in cui qualcuno aprirà la porta.
Ogni mattina, con ogni tempo la solita scena: porta chiusa, Musonero fermo, stirato dallo schiacciassi dell’attesa come un solido che abbia perso o dimenticato il volume del movimento, il semaforo rosso e io che mi chiedo che cosa esattamente aspetti. Il cibo, un po’ di tepore, la prima carezza, una voce conosciuta?
Tutto questo magari, ma non sono mai riuscita ad appurarlo. Passo oltre prima che la porta si apra mai.
Mi rimane solo l’immagine della sua attesa, che è più intensa e acuta di qualunque risposta gli possa venire data. Se anche solo aspettasse cibo, la sua attesa è più affamata della scodella che riceve; se attendesse mani carezzevoli, il suo mantello è troppo grande rispetto alle tenerezze che potrebbero arrivare; il calore di una casa non potrebbe sconfiggere il ricordo del freddo della notte.
Ma Musonero, giorno dopo giorno non rinuncia ad aspettare e ad avere fiducia che la porta si aprirà. Eppure non è un cane giovane, potrebbe sapere come va la vita, che le attese non le risparmia ma a volte le delude. E poi è forte e se fosse libero saprebbe farsi valere e potrebbe vivere da cacciatore. Invece aspetta. Nelle sue giornate ci sono così tanti momenti deputati all’attesa, che, sommati, faranno almeno mezza vita.
Vorrei essere Musonero oggi, davanti alla porta del nuovo anno, come lo sono ogni volta che aspetto il ritorno del mio amore a casa la sera.
Chi mi vede può anche non sapere che cosa aspetto, basta che capisca che ho ancora voglia della ciotola del futuro e sto imparando ad aspettare.