Felice colui che non esige dalla vita più di quello che essa spontaneamente gli dà, facendosi guidare dall’istinto dei gatti che cercano il sole quando c’è il sole, e quando non c’è il sole, il caldo, ovunque esso sia.
[F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli 2003]
Qualcuno potrà crederlo, ma rassegnazione non è la parola giusta.
Verrebbe da chiamarla consapevolezza, se non fosse una parola così stropicciata.
Con un po’ di coraggio si potrebbe pensare che sia il modo di fare il sì. Potremmo decidere di inventarlo, insomma, il verbo sìare, o sìire, un verbo che coniughi tutti i modi di essere e fare sì.
Quando mio nonno mi chiedeva che cosa avrei voluto fare da grande, in genere rispondevo cose diverse in base all’umore, ma non riuscivo mai a stupirlo abbastanza se lui, senza scomporsi davanti a quella volubilità un po’ capricciosa, immancabilmente mi diceva che sarebbe stato uguale sempre: “ Tri basei, regordess”.
Non era uomo di molte parole, ma con quelle mi sembrava esagerasse.
Tre gradini? Che cosa volevano dire? Per fare che?
Immaginavo che volesse dirmi che avrei dovuto faticare un po’, (non troppo forse, perché, in fondo, tre gradini non sono una vera scala), oppure che avrei fatto carriera (una carrierina, magari: tre gradini non danno proprio la visibilità), oppure…non sapevo che altro pensare.
Gli anni sono passati senza che capissi molto di più, ma anche senza che dimenticassi i tre gradini del nonno.
Da poco mi è venuta un’idea.
Tre è il numero giusto per capire la filosofia del gradino. Del singolo gradino, del primo gradino.
All’ultimo sei arrivato ma non hai più, appunto, la possibilità di salire.
Il secondo sta lì ad aspettarti, ti offre un passaggio alla meta, ti lascia riposare, ma non può ospitarti per sempre.
Il primo è solo l’inizio del viaggio, poca roba, ma il secondo sarebbe troppo alto senza il primo e il terzo potrebbe restare un sogno irraggiungibile.
Ecco, mi piacerebbe se il nonno mi chiedesse oggi che cosa vorrei fare da grande o, più realisticamente, che cosa penso di aver fatto. Gli direi che ho cercato di fare e di essere il primo gradino, di scale mie e altrui. I miei sogni di bambina, come forse quelli di tutti gli uomini di scarsa immaginazione, alla fine erano sempre alimentati dalla filosofia della scala: diventerò grande, mi sposerò, avrò figli, farò il lavoro che ho scelto, amerò e sarò riamata.
C’era sempre e solo posto per il terzo gradino. Non ho mai pensato che in questi percorsi a tappe mi sarei fermata prima: per obbligo, per dolore, per cortesia.Per la vita, insomma.
Invece essere il primo gradino non è niente male. Anche il secondo ha le sue gioie.
Si cede il passo e si cambia prospettiva: i desideri si mescolano e capisci che i sogni non hanno padroni, sono i testimoni di una salita a staffette e a loro non importa chi li realizza, basta che un giorno il sogno di tutti sia diventato la vita di qualcuno.
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