domenica 14 novembre 2010

Tempo al tempo

Un’idea mi frulla,
scema come una rosa.
Dopo di noi non c’è nulla.
Nemmeno il nulla,
che già sarebbe qualcosa”.
[G. Caproni, Poesie 1932-1986, Garzanti 1989]


Forse adesso ho capito.
Sono stato tanti anni fa in ospedale, ma ci sono rimasto pochi giorni – giusto il tempo di nascere -: se le cose funzionassero, come potevo accorgermi?
Più grande ho frequentato la scuola: per quanto tempo? Credo il giusto per imparare ciò che tutti si aspettavano imparassi e che qualcosa non andasse proprio per il verso giusto, sì certo mi sembrava, ma ero impaziente di andarmene. Imparare e andare, questo era il mio motto. (Mio figlio ha fatto lo stesso, ne sono orgoglioso).
Al lavoro ci sono stato più o meno quarant’anni. Mensa accettabile, colleghi simpatici. Problemi? Norme di sicurezza? Privacy? Ma dai, altri tempi, meno male che me ne sono andato proprio quando le mie mansioni avrebbero richiesto più senso di responsabilità, più attenzioni. In fondo era come a scuola, lavorare e andare, questo mi interessava più di tutto.
A casa però ci ho vissuto poco, se conto le ore passate fuori. Dormire e uscire, stavolta potrei proprio dirla così.
A ventuno anni ho cominciato a votare: da allora è capitato tante volte, quasi sempre vedevo la tivù per scegliere uno che mi piacesse, ma dopo il voto basta telegiornali, per carità. La politica mi fa un po’ schifo perché sono sempre tutti uguali. Meglio i varietà e i film e a mia moglie ho comprato un televisore apposta per vedere quei programmi che le fanno passare il tempo e le piacciono tanto.
L’anno scorso sono tornato in ospedale: ho dovuto aspettare due settimane un esame, ma quando me l’hanno fatto era troppo tardi; mi hanno ricoverato in corsia – non c’era posto – e ho preso una brutta polmonite. Complicazioni inaspettate, hanno detto. Così sono morto. Cioè, anche questa volta me ne sono andato.
Forse adesso ho capito.

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