La certezza di essere
poveri perché si è distaccati dalle cose o perché interiormente ci si sente
liberi è una certezza umoristica. Qualunque psicologo, anche il meno esperto,
consiglia di diffidare dei nostri sentimenti. I “mi pare di essere”, “sento di
essere”, “credo di essere”, “io sono uno che”, sono espressioni che spesso
denotano tutto il contrario di questo parere, sentire, credere. Quando uno non
fa che ripetere di essere coraggioso, siate certi che muore di paura. Quando
uno non fa che ripetere di essere distaccato dalle cose, di non avere interesse
per ciò che ha e di cui gode, siate certi che alle cose è attaccato con strati
di pece di prima qualità.
[A. Paoli, La pazienza del nulla, chiarelettere 2012]
“Come è andata la settimana?”, gli avevo chiesto non solo
per cortesia, ma anche per sincero interesse. Era una persona gentile, alla quale
non era difficile restituire l’attenzione che dedicava agli altri.
Mi aspettavo una risposta di quelle che non è un abuso
definire prevedibili: “Bene, grazie”, oppure “Insomma, speravo meglio, meno
male che è passata”, o ancora “Faticosa, non ne posso più”. Insomma, frasi così,
nella logica di quella normalità, che attraversiamo ogni giorno e che scegliamo
di sposare nelle mille parole (in)utili che usiamo per raccontarci.
Invece, senza guardarmi, con le mani concentrate sul lavoro e
la voce sorridente, mi disse: “E' passata. Al di là di tutto, le posso dire solo che in genere tendo a non serbare
rancore verso i giorni.”
E in quel giorno (normale) ho inciampato nella libertà.