sabato 27 agosto 2016




Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/ne la miseria, si potrebbe dire oggi tutti noi.
Una riflessione frequente negli ultimi tempi in Europa, un pensiero quotidiano in moltissimi Paesi, dei quali siamo troppo spesso dimentichi.
Ciò che ancora una volta sorprende, però, è il fatto che la sintesi di quel tempo che siamo abituati a chiamare vita spesso sta alla fine tutta e solo lì, nelle pieghe dei giorni, nella spesa fatta l’ultima mattina, nell’appuntamento rimandato, nella scelta di andare a dormire senza fare pace, nel biberon preparato o dimenticato, nel pigiama vecchio che-poi-a-fine-stagione-lo-butto, nei piatti lasciati in ammollo, nei baci scambiati per una buona notte e che nessuna ruspa troverà.
Dettagli. Tutti uguali e tutti diversi, che fanno del tempo, appunto, la (nostra) vita.

lunedì 18 luglio 2016

Oggi e sempre


I miei nonni abitavano nelle "corti" e i nonni paterni, in particolare, stavano in una che tutti conoscevano con il nome di curt granda
Molti anni dopo la loro emancipazione in un appartamento di tre locali, bagno in casa e cognome dell’orgoglioso proprietario sulla porta d’ingresso, quando ho visto finalmente il luogo mitico dell’infanzia di mio padre, ho realizzato che era una specie di piazza sterrata (per loro, un cortile, da cui il nome) orlata dalle porte di casa di tutte le famiglie che vivevano affacciate su uno spazio vuoto e accogliente.
Era cambiato poco, mi si diceva: non le dimensioni, che a me sembravano nient’affatto notevoli, non il bailamme dei bambini-figli di tutti lasciati giocare nello spiazzo centrale, non le chiacchiere delle donne che attendevano al ritiro del bucato o alla preparazione della verdura, senza che si potesse capire a quale uscio fossero destinati fagiolini e lenzuola. 
Era cambiato il colore della pelle degli abitanti, quello sì, e la lingua parlata, ma in tutta sincerità sembrava che quelle voci comprendessero benissimo il mondo conosciuto, che stava tutto lì, condiviso come la polvere e gli odori. 
La sensazione e la certezza erano che se fosse accaduta una tragedia, una nascita, una malattia tutti l’avrebbero saputo, in quel momento come settant’anni prima. 
Per dire, se in tempo di guerra una bomba avesse distrutto la metà delle case, l’altra metà avrebbe potuto raccontare le storie dei morti e sarebbe diventata la portatrice sana di un'assenza, così come prima era stata testimone di una presenza. 
Ugualmente, se un terremoto avesse ingoiato un pezzo di corte, l’altra metà avrebbe gridato il dolore incredulo per il destino incomprensibile. 
Forse qualcosa di simile potrebbe succedere anche nei nostri palazzi, dove gli appartamenti ci chiudono quasi alla vista ma non del tutto ai rumori degli altri, che ci lasciano immaginare vite che non sono esattamente la nostra, ma che alla nostra terribilmente assomigliano, per quotidianità, preoccupazioni e speranze. 
Se ci fosse una disgrazia in questi luoghi, appunto. 
Ma se sali su un autobus, vai allo stadio, scendi in metropolitana, prendi un ascensore panoramico, sei in coda in autostrada, entri in un supermercato, visiti un monumento, preghi in una chiesa, ascolti un concerto, ti bruci in spiaggia, stai per imbarcarti su un aereo o una nave, porti alle giostre i figli, ti godi un gelato sul lungomare, studi in biblioteca, prendi un treno al volo, sei al lavoro o in ospedale, mangi al ristorante, ridi o piangi al cinema e succede una tragedia in questi che non mi piace chiamare "non luoghi", perché se ci muori voglio vedere come si fa a chiamarli negandoli, ecco che la vita tua e di tanti potrebbe finire così, s-conosciuta da s-conosciuti, numero di un insieme casuale senza denominatori comuni, salvo l’ultimo e definitivo. 
Chissà se le tragedie di questi giorni possono almeno indurci a prestare maggiore e migliore attenzione ai non-parenti, non-amici, non-colleghi, che incontriamo e ignoriamo nei tanti “prima” di qualunque accadimento nelle nostre frenetiche giornate. 
E questa speranza è la mia forma di resilienza.

domenica 10 aprile 2016

Ancora e sempre

Stamane ho letto la lettera della madre di Giulio Regeni pubblicata da un quotidiano. 
Come faccio ogni giorno, ovunque mi capiti, anche oggi ho letto di come procedono le indagini, e ho cercato di immaginare che cosa potrà accadere ancora, impegnandomi a mantenere fede all’esercizio non semplicemente della memoria, ma soprattutto della cura.
Oggi, però, ho letto le parole di una madre che in questo dolore non dimentica la sua ombra di insegnante e quelle poche righe mi hanno spinto a dare voce a qualcosa che tengo da mesi nel cuore, che è affiorato in questo periodo di lontananza dalla scuola in prima linea e che ha cominciato a bussarmi dentro prepotentemente nel novembre scorso, all’indomani della tragedia di Parigi, durante le tante manifestazioni di solidarietà agli e dagli stranieri e ascoltando il discorso del padre di Valeria Solesin.
Ma, siccome i pensieri non nascono sotto i cavoli e forse li portano davvero le cicogne viaggiando da un Paese all’altro, in questi mesi ho rinnovato il dolore per quanto accaduto nelle scuole del Ruanda e di Beslan, nelle università della Nigeria e del Kenia, nelle scuole del Pakistan e dell’Afghanistan. E, dopo un viaggio intorno al mondo delle aule, ho concluso che stare a scuola è un onore e insegnare è un mestiere diverso da tutti gli altri. Che va proprio in un’altra direzione, cioè, rispetto a quello che il mondo il più delle volte vorrebbe.
Altri lo sapevano già. Ma io l’ho capito per bene solo ora. 
A che cosa mi è servito stare lontana dalle facce irriverenti e dalle voci sgraziate di ragazzacci aspri e voraci, dalla routine fatta di compiti, correzioni, progettazioni che sembra sempre sul punto di travolgerti, quando annaspi nel mezzo di color che sono sospesi tra i banchi e la vita?
A capire che sono e resterò una insegnante e che voglio proprio esserlo e rimanerci.
Che se c’è una speranza di cambiare il mondo, quella sta a scuola, nascosta dentro un bambino da stanare o nella voce sfinita di una maestra, che è poi è uguale.
Che si impara a chiamare le cose con il loro nome a scuola, prima che in ogni altro luogo. E infatti si parla di analfabetismo di ritorno, dalla scuola e non per la scuola, con buona pace degli arroganti.
Che quando un altro adulto ti chiama professoressa, senti l’orgoglio non per chi sei tu, ma per chi sono e sono stati i tuoi studenti, i tanti ormai cresciuti, andati con le loro gambe nel mondo, che stanno percorrendo anche più di quello che abbia fatto tu, che pure sei sempre un po’ con loro, perché li hai visti piccoli e hai cercato di innaffiare la loro voglia di sapere. E qualche volta hai sbagliato o rischiato di farlo, perché non tutte le piante hanno bisogno della stessa dose di acqua e dello stesso terriccio e ti tormentavi per questo.
Che quando qualcuno diventa famoso, tu sorridi e ricordi quando ha pianto o si è arrabbiato per un brutto voto e hai dovuto motivarlo a continuare a credere in se stesso. E alla fine ci sei riuscita, ti dici in silenzio, se adesso fa quello che fa.
Che anche quando non diventano celebrità, ma li rivedi per strada o a fare la spesa e ti presentano ai loro figli e ti dicono, “Ma lei insegna ancora, vero? Mi dica di sì”, capisci, ormai da professoressa nonna, che loro sapevano che non imbrogliavi e ora diventati genitori sperimentano in prima persona che prima di tutte le educazioni del mondo, ci vuole l’educazione con e per se stessi. 
Che quel detto che chi non sa insegna, è una gran boiata, perché, in genere, chi non sa millanta e a scuola si può fingere per niente o per poco, perché i ragazzi sanno che le bugie fanno venire il naso di legno e ti tengono d’occhio se mai qualcosa cambia nel tuo profilo, mentre stai con loro. Tra adulti, invece, niente di più facile che la parola non mantenga la parola. 
Che anche quando ti capita un dolore enorme, non puoi proprio dimenticarti di essere una insegnante, perché prima viene la preoccupazione di trovare le parole giuste per raggiungere chi ti sta davanti e spiegare, capire facendo capire, ringraziare e spronare tutti a cercare l’altra faccia del dolore che si chiama sempre verità e così forse puoi andare a letto con il cuore pesante ma la speranza che dalle parole nascano bambini fiori e bambini querce, per abbellire e rendere forte questo mondo.
Perché la scuola è davvero l’intero e tu ci stai dentro per sempre, insieme con i tuoi studenti e i tuoi figli.

lunedì 15 febbraio 2016

Per favore, per dovere


Il 10 maggio del 1978 durante l’intervallo di una giornata di scuola come tante, leggevo velocemente e con angoscia i tanti articoli del Corriere dedicati al ritrovamento del corpo di Aldo Moro.
Stava per suonare la campana e mai come in quella occasione il rientro in classe mi pesava. Non erano quelli i tempi in cui a scuola si poteva parlare di quanto succedeva nel mondo, per quanto il mondo stesse cominciando a denunciare evidenti segni di egocentrismo e di desiderio di attenzione, in lotta con i rigidi programmi scolastici.
Per discutere e cercare di capire, si ricorreva ai collettivi, alle autogestioni, alle assemblee più o meno autorizzate e lì, senza maestri e in presunta libertà, si discuteva e ci si arrabbiava, poi si votava qualche documento da presentare al Preside di turno, certi di non essere ascoltati e pronti ad arrabbiarsi di nuovo.
Mentre stavo chiudendo il giornale, lessi, credo in ultima pagina o giù di lì, della morte di un giovane siciliano, Peppino Impastato, trovato dilaniato sui binari di una linea ferroviaria.  Pochissime righe e l’informazione finiva. Se ricordo bene l’impaginazione del Corriere di quegli anni, la notizia era tra le cosiddette brevi di cronaca, una colonnina di lanci di agenzia, che rendevano notizie fatti ritenuti secondari, seppure fatti.
Ecco - ricordo bene, questo sì, di avere pensato – muore un giovane in questo modo terribile e la notizia quasi scompare, travolta dal fiume dei dettagli e dei commenti sull’omicidio Moro.
E già lì mi sembrava una storia sbagliata.
Ma non era un problema politico, non lo era per me, adolescente di quei tempi. Era un problema etico, che si chiamava prima di tutto responsabilità personale.
Non sapevo chi fosse Peppino Impastato, mai sentito nominare prima. E neppure le parole del  giornale facevano pensare all’importanza della sua denuncia civile.
In quel preciso istante, mentre camminavo verso l’ingresso del corridoio delle aule, pensai solo che no, non volevo, non dovevo dimenticarlo, quel ragazzo ucciso. Che la mia memoria l’avrebbe adottato, che l’avrei ricordato ogni volta che ne avessi avuto l’occasione e così l’avrei un po’ risarcito almeno dell’ingiustizia delle poche parole spese per lui.
Non sapevo che lavoro avrei fatto, quali relazioni avrei avuto in futuro e se mai i miei genitori si sarebbero potuti permettere di mantenermi all’università. Nulla di tutto questo mi interessava né sapevo, ma volevo fortemente solo custodire il ricordo di una morte violenta e per giunta mal comunicata.
Non potevo neppure immaginare, in quel preciso momento di una mezza mattina di primavera, che cosa avrebbe rappresentato il nome e la storia di Peppino Impastato per la storia dell’Italia migliore e peggiore, che come spesso accade sono abbracciate indissolubilmente.
Poi gli anni sono passati e con essi la mia vita di insegnante, che ha avuto l’occasione non solo di custodire la memoria, le memorie, ma anche di raccontare e passarne il testimone.
Il ricordo personale dei miei sedici anni mi è nuovamente affiorato da qualche giorno, da quando tutti abbiamo saputo quanto è accaduto a Giulio Regeni.
La sua storia personale di giovane e brillante studioso (che cosa c’è di più politicamente corretto dello studio? quale genitore, quale insegnante non vorrebbe che i propri figli e studenti si facciano strada con le armi della propria intelligenza e cultura?), le atrocità a cui è stato sottoposto (come riusciamo a sopportare l’idea che la nostra quotidianità dal 25 gennaio al  3 febbraio è corsa inconsapevolmente parallela alla sua sofferenza?),  i tentativi di gettare ombre sulla sua vita (come sempre nei casi di un omicidio scomodo e disturbante), la ragion di Stato (anche quello Stato per cui in tanti lavoriamo onestamente e lealmente e nella democrazia del quale siamo cresciuti e crediamo) non possono lasciare tranquille le nostre coscienze.
Lo dico da insegnante, con il cuore gonfio di dolore, io che non ho conosciuto Giulio, ma ho avuto la fortuna di incontrare tanti ragazzi in gamba, tante intelligenze luminose sorrette da una giovinezza curiosa di capire il mondo  e dalla speranza di poterlo migliorare.
Lo dico da insegnante, che non può accettare l’idea che un proprio studente sia massacrato per ciò che i suoi studi, ribadisco, i suoi studi l’hanno portato a essere e a fare.  
Lo dico da cittadina, che non riesce a immaginare che ci possa essere un interesse politico più stringente di quello che ha come obiettivi la verità e la giustizia.
Lo dico da donna, che si ostina a credere che l’unica alternativa a tanta violenza (contro Giulio, contro gli innocenti uccisi in mare, nelle strade o nelle scuole di tutto il mondo, contro l’equità dei diritti e dei doveri) sia l’educazione, lo studio, la cura (non il maternage, no, ma proprio quell’attenzione che Simone Weil riteneva la forma più rara e pura di generosità) e che tutte queste cose insieme possano davvero aiutarci a immaginare l’orizzonte e il suo dopo e a guardare le giovani generazioni con meno vergogna di quella che oggi proviamo per non averle difese dai predatori di futuro.
Vorrei che ancora una volta la scuola, il primo livello di questa tanto bistrattata realtà, quello che “si fa” tutti i giorni nelle aule, diventasse ancora una volta il baluardo della memoria e dell’affermazione della verità.
Per quanto mi riguarda, l’avevo promesso un giorno a Peppino e oggi lo prometto a Giulio, in direzione ostinata e, se necessario, contraria.



domenica 7 febbraio 2016

Forse


Saresti bruttina, mia cara signora,
se non fossi dietro al vetro,
in attesa della vita
da iniziare.

E tu, giovane volgare,
non hai che i pochi anni
da ostentare.

Dentro un tempo ineducato
resta poco
da sperare.


domenica 31 gennaio 2016

Family night


Sottovoce mi dici
che non capisci più nulla di loro,
ma non si hanno scarpe adatte per altrui sentieri,
vorrei dirti.

Anch’io non capivo i giardini d’inverno, piccola mia.
Fino alla luce nuova,
restano dove sono
i rami svestiti dal freddo,
come sedie abbandonate in una sala da ballo.

Dalla prima fuga del verde,
avrei accorciato
i legni senza più storie da raccontare.

Ma poi, bambina,
ho pensato a te, mia foglietta nuova oggi,
pronta a volare
e so che vorresti trovarmi anche domani
dopo il ballo, sedia vuota solo per te.

Non è dato capirli i rami, da foglia,
basta  perdonare che ti lascino andare.