Sono già stanca, non so voi, di questo partito democratico non ancora nato e già vecchissimo di brontolii, malumori e sospetti.
Tutto quello che non vorrei in/da un partito, il nascituro ce l’ha.
Riepilogo: si pensa che senza uno slancio nuovo il centrosinistra sia perduto. Bene. Chi di sinistra o di centro può rifiutarsi di riconoscere come proprio il valore della democrazia che già il nome prospetta? Sembra fatta.
Un sindaco si sceglie ed è scelto. Ci piace, magari non a tutti e non per tutto, ma ci piace.
Forse però è poco democratico il modo, non cadiamo in contraddizione, compagni, amici!
Sarabanda di nomi, compresi quelli che vogliono diventare segretari in comproprietà, insomma, plurale è bello, non l’abbiamo ancora capito?
Si candida anche un ministro donna. Alè. Più di un dubbio ci viene che l’eligendo sia meno eligibile, se non altro perché, si sa, le donne durano di solito di più e noi orfane di Segolène non possiamo rassegnarci ad essere solo sorelle di Angela o figlie di Hillary. Chi siamo noi per non essere noi, se abbiamo una brava come lei?
Si fa avanti anche un giovane sottosegretario, bravo, che ha molto studiato per diventare grande e non vecchio. Più di una promessa.
Non mancano altri nomi di gente che, è evidente, sta investendo nel nuovo.
Quanta energia questa ideuzza di partito! Ci prepariamo a confronti seri e costruttivi.
Qualcuno nel frattempo ha rinunciato alla candidatura, ma nessuno ha pensato che forse la rinuncia faccia parte della vita di ogni giorno, perché la politica evidentemente non conosce, e non può rispettare, le leggi del quotidiano. Meglio sussurrare diffidenza perché altri gridino al complotto.
Che fanno allora il prescelto, l’amazzone e il giovane di belle speranze?
Si parlano, si ascoltano, ci ascoltano?
Mentre noi aspettiamo progetti, fiducia, e attenzione – se non soluzione – ai problemi, mentre noi ci lasciamo finalmente investire dalla speranza di un nuovo modo di “essere politica” prima ancora che di “fare politica”, mentre noi abbiamo voglia di tornare a sorridere come dopo un lungo periodo di lutto e scoprire che lo si può fare senza mortali sensi di colpa e di inadeguatezza e abbiamo sempre più voglia di tornare a riconoscerci in un “noi” condiviso, loro, i tre insomma, si fanno ombrosi, solitari, sembra che nulla li accomuni salvo la lotta per il posto (politico?) da ottenere.
Le loro truppe personali, poi, preparano i fuochi e le armi per l’assedio che hanno cominciato a vivere, fiutano in ogni dove il pericolo, leggono in ogni parola l’agguato e il tranello.
Ecco, facciamola finita.
Care milizie d’assalto, mi candido io alla segreteria, così il governo del vostro professore non è in pericolo. E quando ho finito il segretariato di servizio vi lascio il posto, lo metto per iscritto se volete anche se potete fidarvi, perché tanto un altro lavoro, anonimo ma vero, io ce l’ho.
Voi, intanto, paladini, ministri, sottosegretari e professori fate la “parte del vostro dovere”, come diceva mia nonna, vedete di non farlo cadere voi questo governo.
E state zitti, per cortesia, perché vorrei capire come crederci ancora.
"fabbricare, fabbricare, fabbricare / preferisco il rumore del mare / che dice fabbricare fare e disfare / fare e disfare è tutto un lavorare / ecco quello che so fare. scrivete. addio" (D. Campana, Cartolina postale del 13 ottobre 1916, in S. Aleramo, D. Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, Feltrinelli, Milano 2000, p. 72)
mercoledì 29 agosto 2007
sabato 18 agosto 2007
Le vite degli altri
Forse Montale non aveva del tutto ragione quando in occasione della consegna del premio Nobel disse più o meno che, in fondo, la poesia è del tutto inutile alla vita.
In effetti, senza poesia, ma anche senza musica e cinema e teatro si può vivere bene, non benissimo magari, ma certamente bene sì.
Utile alla vita è invece un lavoro e una casa, il cibo, un qualunque libretto di istruzioni per un qualunque aggeggio tecnologico da cui siamo circondati. In molti casi sono utili dei mezzi di trasporto, i vestiti, il denaro più di tutto.
Il resto, non solo l’arte, non è strettamente necessario e può essere addirittura un ostacolo: i sentimenti, per esempio, sono ingombranti, possono essere fraintesi o male interpretati, qualche volta bucano il cuore, diventano una raffineria di dolore. Per non parlare della passione politica o della fede che in ogni tempo hanno consapevolmente separato più di quanto abbiano loro malgrado unito.
Se gli uomini fossero minimamente ragionevoli si asterrebbero dall’inutile della vita. E invece vediamo e viviamo vite affollate di aspettative, desideri, confusioni e delusioni, spesso senza trovare un senso o sperare di dipanarne i nodi in una via di uscita.
Poi un giorno ci imbattiamo in qualche cosa che crediamo abbastanza superfluo per la nostra vita impastata di necessario e inutile, magari un concerto, un libro o un film e accade che qualcuno che condivide l’esperienza ci dica che «è bellissimo, perché è semplice e la semplicità spiega e risolve sempre, in fondo…».
Ecco, non ce n’eravamo ancora accorti: ogni vita, la più meschina o la più brillante, riesce a morire per le ‘complicanze connesse all’intento di vivere’. A quel punto, prendersi una pausa e assistere a una vita osservata e raccontata dalle parole o dalle immagini, poco importa il mezzo, permette di riscoprire la nostra nella semplicità che ne tiene i fili e che a volte dimentichiamo di vedere.
Nell’inutile racconto dell’arte, le vite altrui diventano non solo travi di male da accusare e spezzare, ma pagliuzze di bene da imitare e regalare.
In effetti, senza poesia, ma anche senza musica e cinema e teatro si può vivere bene, non benissimo magari, ma certamente bene sì.
Utile alla vita è invece un lavoro e una casa, il cibo, un qualunque libretto di istruzioni per un qualunque aggeggio tecnologico da cui siamo circondati. In molti casi sono utili dei mezzi di trasporto, i vestiti, il denaro più di tutto.
Il resto, non solo l’arte, non è strettamente necessario e può essere addirittura un ostacolo: i sentimenti, per esempio, sono ingombranti, possono essere fraintesi o male interpretati, qualche volta bucano il cuore, diventano una raffineria di dolore. Per non parlare della passione politica o della fede che in ogni tempo hanno consapevolmente separato più di quanto abbiano loro malgrado unito.
Se gli uomini fossero minimamente ragionevoli si asterrebbero dall’inutile della vita. E invece vediamo e viviamo vite affollate di aspettative, desideri, confusioni e delusioni, spesso senza trovare un senso o sperare di dipanarne i nodi in una via di uscita.
Poi un giorno ci imbattiamo in qualche cosa che crediamo abbastanza superfluo per la nostra vita impastata di necessario e inutile, magari un concerto, un libro o un film e accade che qualcuno che condivide l’esperienza ci dica che «è bellissimo, perché è semplice e la semplicità spiega e risolve sempre, in fondo…».
Ecco, non ce n’eravamo ancora accorti: ogni vita, la più meschina o la più brillante, riesce a morire per le ‘complicanze connesse all’intento di vivere’. A quel punto, prendersi una pausa e assistere a una vita osservata e raccontata dalle parole o dalle immagini, poco importa il mezzo, permette di riscoprire la nostra nella semplicità che ne tiene i fili e che a volte dimentichiamo di vedere.
Nell’inutile racconto dell’arte, le vite altrui diventano non solo travi di male da accusare e spezzare, ma pagliuzze di bene da imitare e regalare.
domenica 12 agosto 2007
«Un’accusa permanente»
A Milano fino al 16 settembre è allestita una mostra dedicata a Fernando Botero, l’artista colombiano cantore della morbidezza, la cui complessità concettuale si risolve in una resa gioiosa, piena (è davvero il caso di dirlo) di luce, vita e memoria. Visitare i suoi quadri dà energia, regala sorrisi genuini e sconfigge la solitudine e il pregiudizio. Non è poco, di questi tempi, forse perché proprio di questo i tempi hanno bisogno.
Le donne di Botero sembrano mappamondi, quelle belle, colorate e girevoli sfere che un tempo campeggiavano frequenti sulle scrivanie di tanti studenti. Ripenso all’orgoglio che provavo quando confrontavo il mio bel mondo tondo, ingombrante e quindi ai miei occhi vivo, con quella figura oblunga, indiscutibilmente più seria e suggestiva di studio vincente, del planisfero che la mia amica teneva appeso a una parete del suo studio. Sotto ai miei oceani si sentiva la profondità del mare ed era una piacere vedere le Americhe ingrossarsi e assottigliarsi quasi a seguire le forme della terra e accorgersi al tatto che i Pirenei pungevano meno delle vicine Alpi.
Ecco, Botero non dipinge solo donne, ma anche fiumi, golfi e montagne e foreste nelle linee curve, nei nasi, nelle dita dalle unghie dipinte come fosse una neve che colora le cime più alte, nei capelli corvini di ancestrale memoria. Dipinge una geografia fisica della terra nelle forme relative di figure umane che solo per la loro imponenza richiamano l’assoluto e la storia inalterabile della vita, ma sprigionano tutta la transitorietà del quotidiano nei lavori degli artisti circensi, nei ritratti, negli abbracci degli amanti.
E quando gli uomini hanno oltraggiato il diritto e la dignità dei loro simili e attraverso di loro il diritto e la dignità della terra stessa, il linguaggio di Botero è diventato politico, proprio come quei mappamondi che se illuminati dall’interno si trasformavano da fisici in politici per agevolare lo studio anche degli scolari più refrattari alla comprensione. I soggetti diventano corpi violati e offesi, umiliati e percossi, carne e sangue della deriva della storia.
L’arte è «un’accusa permanente», ha detto Botero, «se mi sento come se mi avessero staccato la testa so che quella è poesia», aveva scritto E. Dickinson, se Guernica “è” la guerra, lo dobbiamo a Picasso.
Dunque le opere sui crimini di Abu Grahib diranno per sempre quel male politico che noi facilmente allontaniamo cambiando canale o girando le pagine del giornale. Anche Mantegna dipinse un povero Cristo umano, tutto piedi, trafitto di dolore sul letto di morte, ma accanto c’era ancora posto per la pietà nelle lacrime delle donne. I quadri su Abu Grahib sono forse il richiamo che la nuova storia non ha più voglia di piangere sui suoi morti.
Le donne di Botero sembrano mappamondi, quelle belle, colorate e girevoli sfere che un tempo campeggiavano frequenti sulle scrivanie di tanti studenti. Ripenso all’orgoglio che provavo quando confrontavo il mio bel mondo tondo, ingombrante e quindi ai miei occhi vivo, con quella figura oblunga, indiscutibilmente più seria e suggestiva di studio vincente, del planisfero che la mia amica teneva appeso a una parete del suo studio. Sotto ai miei oceani si sentiva la profondità del mare ed era una piacere vedere le Americhe ingrossarsi e assottigliarsi quasi a seguire le forme della terra e accorgersi al tatto che i Pirenei pungevano meno delle vicine Alpi.
Ecco, Botero non dipinge solo donne, ma anche fiumi, golfi e montagne e foreste nelle linee curve, nei nasi, nelle dita dalle unghie dipinte come fosse una neve che colora le cime più alte, nei capelli corvini di ancestrale memoria. Dipinge una geografia fisica della terra nelle forme relative di figure umane che solo per la loro imponenza richiamano l’assoluto e la storia inalterabile della vita, ma sprigionano tutta la transitorietà del quotidiano nei lavori degli artisti circensi, nei ritratti, negli abbracci degli amanti.
E quando gli uomini hanno oltraggiato il diritto e la dignità dei loro simili e attraverso di loro il diritto e la dignità della terra stessa, il linguaggio di Botero è diventato politico, proprio come quei mappamondi che se illuminati dall’interno si trasformavano da fisici in politici per agevolare lo studio anche degli scolari più refrattari alla comprensione. I soggetti diventano corpi violati e offesi, umiliati e percossi, carne e sangue della deriva della storia.
L’arte è «un’accusa permanente», ha detto Botero, «se mi sento come se mi avessero staccato la testa so che quella è poesia», aveva scritto E. Dickinson, se Guernica “è” la guerra, lo dobbiamo a Picasso.
Dunque le opere sui crimini di Abu Grahib diranno per sempre quel male politico che noi facilmente allontaniamo cambiando canale o girando le pagine del giornale. Anche Mantegna dipinse un povero Cristo umano, tutto piedi, trafitto di dolore sul letto di morte, ma accanto c’era ancora posto per la pietà nelle lacrime delle donne. I quadri su Abu Grahib sono forse il richiamo che la nuova storia non ha più voglia di piangere sui suoi morti.
martedì 7 agosto 2007
l'importanza di non capire tutto (1)
Paolo e Francesca non finirebbero all’Inferno
Renzo griderebbe al complotto contro don Abbondio
Anna K. ed Emma B. sarebbero ancora vive
Il padre di Zeno C. sarebbe in una casa di riposo
Renzo griderebbe al complotto contro don Abbondio
Anna K. ed Emma B. sarebbero ancora vive
Il padre di Zeno C. sarebbe in una casa di riposo
e quello di Gregor S. al cimitero
Cappuccetto rosso direbbe alla mamma: “vacci tu”,
Cappuccetto rosso direbbe alla mamma: “vacci tu”,
sbattendo la porta della camera
Ulisse scriverebbe di persona personalmente le poesie
Ulisse scriverebbe di persona personalmente le poesie
che lo riguardano
Giasone e Medea sceglierebbero il sesso protetto
Dorian G. direbbe a Oscar W.: “senza rancore,
Giasone e Medea sceglierebbero il sesso protetto
Dorian G. direbbe a Oscar W.: “senza rancore,
ma nel prossimo secolo è meglio”
Don Chisciotte si vanterebbe di non sapere leggere
Don Chisciotte si vanterebbe di non sapere leggere
né scrivere, ma di aver fatto i soldi lo stesso
Bartleby no.
Nessuno l’assumerebbe certo, ma anche in mezzo a una strada lui direbbe: I would prefer not to. E se invece la sorte lo baciasse e lo arricchisse suo malgrado, famoso e lusingato da giornali e televisioni guarderebbe tutto con occhio fermo per poi dire che, comunque e sempre, avrebbe preferenza di no. Perché no, davvero, tutto è preferibile, è importante che non si capisca.
Bartleby no.
Nessuno l’assumerebbe certo, ma anche in mezzo a una strada lui direbbe: I would prefer not to. E se invece la sorte lo baciasse e lo arricchisse suo malgrado, famoso e lusingato da giornali e televisioni guarderebbe tutto con occhio fermo per poi dire che, comunque e sempre, avrebbe preferenza di no. Perché no, davvero, tutto è preferibile, è importante che non si capisca.
giovedì 2 agosto 2007
grazie
Al numero 1 di viale libertà c’è una vecchia villa un tempo abitata – inventata? - da una altrettanto vecchia signora, minuta e silenziosa che amava osservare la gente e allevare galline. Non disdegnava i conigli ma sapeva solo cucinarli e da vivi non le sembravano molto interessanti. Ogni tanto ospitava amici e parenti, di solito vecchi e originali quanto lei. Per un certo periodo comparve una cugina di città, altrettanto piccola di statura ma senza uno spigolo in vista, generosa di parole e golosa come una bambina.
L’ ospite più frequente, però, quasi un secondo proprietario fu un anziano reduce, mite e buono. Come il cibo che sfama dopo lungo digiuno, come oggi quasi nessuno, come il bacio del ritorno. Non sembrava potesse esistere una persona così. Ma c’era e la sorte l’aveva portato lì. È lui, decise la vecchia signora, che continuerà la vita di questa casa quando non ci sarò più. E anche quando l’ultima gallina morì, la villa rimase vivace, anzi divenne ancora più aperta ai conoscenti e a semplici passanti, attratti dal grande giardino che prometteva ristoro d’estate e dal calore accogliente della cucina d’inverno.
Per anni ho frequentato la villa, ogni volta sorpresa dal bene che sprigionava.
Oggi la guardo dal viale, è in ordine, il tempo l’ha rispettata, anche se le porte sono sbarrate e nessuno dalla veranda saluta invitando per un caffè. Ma i platani e il noce continuano a respirare e il gelsomino inonda di profumo la primavera e il pollaio potrebbe accogliere da subito nuovi pulcini. Sono ancora lucide le targhe sui pilastri del cancello e continuano a proporre il nome della casa forse a invogliarne l’acquisto o almeno l’interesse.
Un po’ mia lo è già. Tutti i giorni ci passo, saluto il suo passato e immagino il futuro. Stasera ho anche brindato alla sua salute, con un bicchiere di bollicine che tintinnava sulle piastre di ottone, cin cin e lunga vita a te “Villa Cesarina”.
L’ ospite più frequente, però, quasi un secondo proprietario fu un anziano reduce, mite e buono. Come il cibo che sfama dopo lungo digiuno, come oggi quasi nessuno, come il bacio del ritorno. Non sembrava potesse esistere una persona così. Ma c’era e la sorte l’aveva portato lì. È lui, decise la vecchia signora, che continuerà la vita di questa casa quando non ci sarò più. E anche quando l’ultima gallina morì, la villa rimase vivace, anzi divenne ancora più aperta ai conoscenti e a semplici passanti, attratti dal grande giardino che prometteva ristoro d’estate e dal calore accogliente della cucina d’inverno.
Per anni ho frequentato la villa, ogni volta sorpresa dal bene che sprigionava.
Oggi la guardo dal viale, è in ordine, il tempo l’ha rispettata, anche se le porte sono sbarrate e nessuno dalla veranda saluta invitando per un caffè. Ma i platani e il noce continuano a respirare e il gelsomino inonda di profumo la primavera e il pollaio potrebbe accogliere da subito nuovi pulcini. Sono ancora lucide le targhe sui pilastri del cancello e continuano a proporre il nome della casa forse a invogliarne l’acquisto o almeno l’interesse.
Un po’ mia lo è già. Tutti i giorni ci passo, saluto il suo passato e immagino il futuro. Stasera ho anche brindato alla sua salute, con un bicchiere di bollicine che tintinnava sulle piastre di ottone, cin cin e lunga vita a te “Villa Cesarina”.