A Milano fino al 16 settembre è allestita una mostra dedicata a Fernando Botero, l’artista colombiano cantore della morbidezza, la cui complessità concettuale si risolve in una resa gioiosa, piena (è davvero il caso di dirlo) di luce, vita e memoria. Visitare i suoi quadri dà energia, regala sorrisi genuini e sconfigge la solitudine e il pregiudizio. Non è poco, di questi tempi, forse perché proprio di questo i tempi hanno bisogno.
Le donne di Botero sembrano mappamondi, quelle belle, colorate e girevoli sfere che un tempo campeggiavano frequenti sulle scrivanie di tanti studenti. Ripenso all’orgoglio che provavo quando confrontavo il mio bel mondo tondo, ingombrante e quindi ai miei occhi vivo, con quella figura oblunga, indiscutibilmente più seria e suggestiva di studio vincente, del planisfero che la mia amica teneva appeso a una parete del suo studio. Sotto ai miei oceani si sentiva la profondità del mare ed era una piacere vedere le Americhe ingrossarsi e assottigliarsi quasi a seguire le forme della terra e accorgersi al tatto che i Pirenei pungevano meno delle vicine Alpi.
Ecco, Botero non dipinge solo donne, ma anche fiumi, golfi e montagne e foreste nelle linee curve, nei nasi, nelle dita dalle unghie dipinte come fosse una neve che colora le cime più alte, nei capelli corvini di ancestrale memoria. Dipinge una geografia fisica della terra nelle forme relative di figure umane che solo per la loro imponenza richiamano l’assoluto e la storia inalterabile della vita, ma sprigionano tutta la transitorietà del quotidiano nei lavori degli artisti circensi, nei ritratti, negli abbracci degli amanti.
E quando gli uomini hanno oltraggiato il diritto e la dignità dei loro simili e attraverso di loro il diritto e la dignità della terra stessa, il linguaggio di Botero è diventato politico, proprio come quei mappamondi che se illuminati dall’interno si trasformavano da fisici in politici per agevolare lo studio anche degli scolari più refrattari alla comprensione. I soggetti diventano corpi violati e offesi, umiliati e percossi, carne e sangue della deriva della storia.
L’arte è «un’accusa permanente», ha detto Botero, «se mi sento come se mi avessero staccato la testa so che quella è poesia», aveva scritto E. Dickinson, se Guernica “è” la guerra, lo dobbiamo a Picasso.
Dunque le opere sui crimini di Abu Grahib diranno per sempre quel male politico che noi facilmente allontaniamo cambiando canale o girando le pagine del giornale. Anche Mantegna dipinse un povero Cristo umano, tutto piedi, trafitto di dolore sul letto di morte, ma accanto c’era ancora posto per la pietà nelle lacrime delle donne. I quadri su Abu Grahib sono forse il richiamo che la nuova storia non ha più voglia di piangere sui suoi morti.
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