Il dolore
È plastica nell’oceano.
È un muro portante.
Il dolore è la terra che
La stagione copre e scopre
Ma sempre rimane
Cemento o castagna
Dipende dall’occhio
Avido o generoso che la guarda.
Il dolore figlia solo padroni.
Sterile operaia la felicità
Che non arriva a fine vita.
"fabbricare, fabbricare, fabbricare / preferisco il rumore del mare / che dice fabbricare fare e disfare / fare e disfare è tutto un lavorare / ecco quello che so fare. scrivete. addio" (D. Campana, Cartolina postale del 13 ottobre 1916, in S. Aleramo, D. Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, Feltrinelli, Milano 2000, p. 72)
martedì 20 novembre 2007
martedì 6 novembre 2007
Fanatismi quotidiani
“Vorreste dirmi, Bartleby, dove siete nato?”
“Avrei preferenza di no.”
“Non vorreste dirmi nulla su di voi?”
“Avrei preferenza di no".”
“Ma quale ragionevole obbiezione può spingervi a non parlare? Io ho per voi sentimenti amichevoli.”
[…]
“Qual è la vostra risposta, Bartleby?” dissi dopo aver atteso una risposta per un buon pezzo di tempo, durante il quale il suo viso s’era mantenuto immobile, tranne per il più impercettibile tremore nelle pallide e sottili labbra.
“Al momento ho preferenza a non rispondere,” disse…
[H. Melville, Bartleby lo scrivano, Feltrinelli 1991]
In un articolo apparso qualche giorno fa sul Corriere della sera, Amos Oz ci suggeriva di leggere romanzi perché capire le ragioni di carta dei personaggi aiuta a capire le azioni e i pensieri di carne di chi ci sta attorno.
Già in un suo breve saggio (Contro il fanatismo, Feltrinelli 2004), lo stesso autore israeliano raccontava l’aneddoto dell’amico che, alle parole oltranziste e violente dell’autista che lo accompagnava e tentava di convincerlo della bontà dell’idea che ogni ebreo si incaricasse di sterminare un certo numero di arabi per risolvere il conflitto in Medio Oriente, rispondeva: "Ok, supponiamo allora che a lei venga assegnato un condominio nella sua città, Haifa, e debba bussare a ogni porta o suonare il campanello, e domandare: «Mi scusi signore, o mi scusi signora, lei è arabo?» e se la risposta è sì, allora sparare. Poi lei finisce il suo condominio, se ne sta per andare a casa, ma in quel momento sente che su al quarto piano c’è un bimbo che piange. Che fa, torna indietro e spara al bambino? Sì o no?”. E a quel punto, l’autista, dopo qualche minuto di silenzio, ribatteva: “Lo sa, lei è molto crudele”.
Se immaginare serve, magari poco ma serve, al fanatico dichiarato, a maggior ragione può aiutare coloro che tali non si sentono e spesso sono pronti a indignarsi davanti alle più diverse manifestazioni di intolleranza verso gli altri, è la considerazione conclusiva dell’autore.
Pensare che Oz abbia ragione è facile.
Vivere la ragione di Oz è più difficile.
Una conoscente, madre di un bambino gravemente disabile, mi disse un giorno che solo chi è madre di un figlio portatore di handicap è veramente madre e sa che cosa significhi esserlo.
“Cara signora, mi confidò una volta una donna molto distinta e cordiale, lei non sa che cosa voglia dire avere due figli maschi. Non è certo come avere due bambine, più pulite, più obbedienti. Danno anche più soddisfazioni, sa. Io, invece, ho davvero molto da fare. Per non parlare poi di chi ne ha uno solo di figlio e non sa proprio come ti cambia la vita il secondo.”
E una vicina di casa gentile, vedova da poco, mi ripetè all’infinito che no, non potevo capire il suo dolore, perché non ci ero passata. Solo chi aveva subito una perdita come la sua poteva capire, forse, la sua angoscia.
Anche queste, educate ma esplicite accuse di inadeguatezza, sono forme mascherate di fanatismo.
Avrei preferenza di no, non vorrei vivere le vostre vite, vorrei rispondere. Mi basta la mia.
Rassegniamoci. Vorremmo sempre vincere, non importa se in gioie o in dolori, forse neanche ci interessa veramente, vorremmo avere o essere, quasi si confondono, qualcosa in più degli altri. Ma il destino vuole che in più abbiamo la nostra di vita, in meno abbiamo quella altrui. Pareggio. Questo campionato non lo vince nessuno.
Non resta che immaginare, allora, la vita degli altri. E accettare che basti. E sia già molto.
Anche se non serve al possesso e aiuta “solo” a sentire il pianto sommesso della donna sola senza il compagno della sua vita, ad ascoltare l’insofferenza di una famiglia che si sta perdendo nella rincorsa del solo benessere visibile e socialmente appagante, a leggere tra le rughe di una madre stanca i segni del dolore di una maternità ferita nei desideri della sua giovinezza.
Immaginare serve a poco, insomma, ma non farlo e vivere singolarmente la propria vita disconoscendo il plurale sarebbe l’unica, vera sconfitta.
“Avrei preferenza di no.”
“Non vorreste dirmi nulla su di voi?”
“Avrei preferenza di no".”
“Ma quale ragionevole obbiezione può spingervi a non parlare? Io ho per voi sentimenti amichevoli.”
[…]
“Qual è la vostra risposta, Bartleby?” dissi dopo aver atteso una risposta per un buon pezzo di tempo, durante il quale il suo viso s’era mantenuto immobile, tranne per il più impercettibile tremore nelle pallide e sottili labbra.
“Al momento ho preferenza a non rispondere,” disse…
[H. Melville, Bartleby lo scrivano, Feltrinelli 1991]
In un articolo apparso qualche giorno fa sul Corriere della sera, Amos Oz ci suggeriva di leggere romanzi perché capire le ragioni di carta dei personaggi aiuta a capire le azioni e i pensieri di carne di chi ci sta attorno.
Già in un suo breve saggio (Contro il fanatismo, Feltrinelli 2004), lo stesso autore israeliano raccontava l’aneddoto dell’amico che, alle parole oltranziste e violente dell’autista che lo accompagnava e tentava di convincerlo della bontà dell’idea che ogni ebreo si incaricasse di sterminare un certo numero di arabi per risolvere il conflitto in Medio Oriente, rispondeva: "Ok, supponiamo allora che a lei venga assegnato un condominio nella sua città, Haifa, e debba bussare a ogni porta o suonare il campanello, e domandare: «Mi scusi signore, o mi scusi signora, lei è arabo?» e se la risposta è sì, allora sparare. Poi lei finisce il suo condominio, se ne sta per andare a casa, ma in quel momento sente che su al quarto piano c’è un bimbo che piange. Che fa, torna indietro e spara al bambino? Sì o no?”. E a quel punto, l’autista, dopo qualche minuto di silenzio, ribatteva: “Lo sa, lei è molto crudele”.
Se immaginare serve, magari poco ma serve, al fanatico dichiarato, a maggior ragione può aiutare coloro che tali non si sentono e spesso sono pronti a indignarsi davanti alle più diverse manifestazioni di intolleranza verso gli altri, è la considerazione conclusiva dell’autore.
Pensare che Oz abbia ragione è facile.
Vivere la ragione di Oz è più difficile.
Una conoscente, madre di un bambino gravemente disabile, mi disse un giorno che solo chi è madre di un figlio portatore di handicap è veramente madre e sa che cosa significhi esserlo.
“Cara signora, mi confidò una volta una donna molto distinta e cordiale, lei non sa che cosa voglia dire avere due figli maschi. Non è certo come avere due bambine, più pulite, più obbedienti. Danno anche più soddisfazioni, sa. Io, invece, ho davvero molto da fare. Per non parlare poi di chi ne ha uno solo di figlio e non sa proprio come ti cambia la vita il secondo.”
E una vicina di casa gentile, vedova da poco, mi ripetè all’infinito che no, non potevo capire il suo dolore, perché non ci ero passata. Solo chi aveva subito una perdita come la sua poteva capire, forse, la sua angoscia.
Anche queste, educate ma esplicite accuse di inadeguatezza, sono forme mascherate di fanatismo.
Avrei preferenza di no, non vorrei vivere le vostre vite, vorrei rispondere. Mi basta la mia.
Rassegniamoci. Vorremmo sempre vincere, non importa se in gioie o in dolori, forse neanche ci interessa veramente, vorremmo avere o essere, quasi si confondono, qualcosa in più degli altri. Ma il destino vuole che in più abbiamo la nostra di vita, in meno abbiamo quella altrui. Pareggio. Questo campionato non lo vince nessuno.
Non resta che immaginare, allora, la vita degli altri. E accettare che basti. E sia già molto.
Anche se non serve al possesso e aiuta “solo” a sentire il pianto sommesso della donna sola senza il compagno della sua vita, ad ascoltare l’insofferenza di una famiglia che si sta perdendo nella rincorsa del solo benessere visibile e socialmente appagante, a leggere tra le rughe di una madre stanca i segni del dolore di una maternità ferita nei desideri della sua giovinezza.
Immaginare serve a poco, insomma, ma non farlo e vivere singolarmente la propria vita disconoscendo il plurale sarebbe l’unica, vera sconfitta.
giovedì 1 novembre 2007
A ciascuno il suo
Dopo la guerra io speravo che sì, diventavamo davvero marito e moglie. Avevo pensato anche ai nomi dei bambini. Invece lui, dopo il lavoro, andava al trani, mica neanche a bere, a guardare gli altri. E poi andava alla corale della chiesa di Sant’Eustorgio e quando tornava io era già a letto. Avevo il sonno leggero, lo sentivo infilarsi sotto le coperte e pensavo che era la volta buona. Ma lui, come toccava il cuscino, era belle che addormentato. Allora ga metevi lì i peè, che erano sempre un giaz. Almeno scaldum i peè, demoni. Lü al diseva nient, al sa girava per tucam dumè i peè e al s’indurmentava sübit.
Insomma hai capito, tuseta, sono una si-gno-ri-na di guerra.
[dal Diario di una sposa per procura]
Se non ricordo male, una decina di anni fa in un film di Abbas Kiarostami, Sotto gli ulivi, i due giovani e innamorati protagonisti si dicevano che il matrimonio è quando «io preparo una tazza di the a te e tu prepari una tazza di the a me».
Oggi, nel film di Silvio Soldini Giorni e nuvole, una coppia vecchia non certo di anni, ma di certezze, sembra autosospendersi dal compito di cercare di essere una bevanda ristoratrice l’uno per l’altro.
Nel plauso generale che ha accompagnato l’uscita del film, qualche recensione ha evidenziato che, pur essendo una pellicola di valore, manca nella storia il calore delle emozioni di un altro film di Soldini, Pane e tulipani, dove una vacanza dal matrimonio scatena un’avventura d’amore per la vita salutare non solo per la protagonista, ma anche per gli altri personaggi, accomunati da una lunga e mai diagnosticata, eppure grave, malattia del quotidiano.
Nella storia di oggi, invece, la famiglia di Elsa e Michele gode di ottima salute fino all’esplosione di un male tanto inaspettato e traumatizzante per sé, quanto, in fondo, prevedibile anche se doloroso per gli altri, che impone ai protagonisti parole e tempi fino a quel momento sconosciuti. E la fatica che ne esce è dura e non concede spazi alla morbidezza della poesia, senza la quale si può mangiare ma non si può vivere.
Eppure a me sembra che questo ultimo film del regista milanese non abbia niente da invidiare al precedente: entrambi sono storie dei tempi e il tempo che stiamo vivendo oggi è sicuramente più spietato anche solo di pochi anni fa. Emblematica mi è sembrata la storia degli ex operai di Michele a loro volta senza un lavoro e sul punto, insieme con lui, di raccontarci una favola di pane e tulipani. Ma l’esito di questa boccata d’aria non è del tutto piacevole, forse è aria calda, d’accordo, ma una volta passata ci lascia arsi e assetati più di prima.
Oggi, sembra dire il film, e in questo è perfetto, è un’altra storia. Nessuno regala il sereno. Oggi bisogna convivere con questo cielo un po’ così, di giorno nuvoloso senza pioggia vera, di notte buio senza stelle vive.
E poi, il cielo è anche troppo. Per due basta quello in una stanza.
Insomma hai capito, tuseta, sono una si-gno-ri-na di guerra.
[dal Diario di una sposa per procura]
Se non ricordo male, una decina di anni fa in un film di Abbas Kiarostami, Sotto gli ulivi, i due giovani e innamorati protagonisti si dicevano che il matrimonio è quando «io preparo una tazza di the a te e tu prepari una tazza di the a me».
Oggi, nel film di Silvio Soldini Giorni e nuvole, una coppia vecchia non certo di anni, ma di certezze, sembra autosospendersi dal compito di cercare di essere una bevanda ristoratrice l’uno per l’altro.
Nel plauso generale che ha accompagnato l’uscita del film, qualche recensione ha evidenziato che, pur essendo una pellicola di valore, manca nella storia il calore delle emozioni di un altro film di Soldini, Pane e tulipani, dove una vacanza dal matrimonio scatena un’avventura d’amore per la vita salutare non solo per la protagonista, ma anche per gli altri personaggi, accomunati da una lunga e mai diagnosticata, eppure grave, malattia del quotidiano.
Nella storia di oggi, invece, la famiglia di Elsa e Michele gode di ottima salute fino all’esplosione di un male tanto inaspettato e traumatizzante per sé, quanto, in fondo, prevedibile anche se doloroso per gli altri, che impone ai protagonisti parole e tempi fino a quel momento sconosciuti. E la fatica che ne esce è dura e non concede spazi alla morbidezza della poesia, senza la quale si può mangiare ma non si può vivere.
Eppure a me sembra che questo ultimo film del regista milanese non abbia niente da invidiare al precedente: entrambi sono storie dei tempi e il tempo che stiamo vivendo oggi è sicuramente più spietato anche solo di pochi anni fa. Emblematica mi è sembrata la storia degli ex operai di Michele a loro volta senza un lavoro e sul punto, insieme con lui, di raccontarci una favola di pane e tulipani. Ma l’esito di questa boccata d’aria non è del tutto piacevole, forse è aria calda, d’accordo, ma una volta passata ci lascia arsi e assetati più di prima.
Oggi, sembra dire il film, e in questo è perfetto, è un’altra storia. Nessuno regala il sereno. Oggi bisogna convivere con questo cielo un po’ così, di giorno nuvoloso senza pioggia vera, di notte buio senza stelle vive.
E poi, il cielo è anche troppo. Per due basta quello in una stanza.