martedì 6 novembre 2007

Fanatismi quotidiani

“Vorreste dirmi, Bartleby, dove siete nato?”
“Avrei preferenza di no.”
“Non vorreste dirmi nulla su di voi?”
“Avrei preferenza di no".”
“Ma quale ragionevole obbiezione può spingervi a non parlare? Io ho per voi sentimenti amichevoli.”

[…]
“Qual è la vostra risposta, Bartleby?” dissi dopo aver atteso una risposta per un buon pezzo di tempo, durante il quale il suo viso s’era mantenuto immobile, tranne per il più impercettibile tremore nelle pallide e sottili labbra.
“Al momento ho preferenza a non rispondere,” disse…

[H. Melville, Bartleby lo scrivano, Feltrinelli 1991]

In un articolo apparso qualche giorno fa sul Corriere della sera, Amos Oz ci suggeriva di leggere romanzi perché capire le ragioni di carta dei personaggi aiuta a capire le azioni e i pensieri di carne di chi ci sta attorno.
Già in un suo breve saggio (Contro il fanatismo, Feltrinelli 2004), lo stesso autore israeliano raccontava l’aneddoto dell’amico che, alle parole oltranziste e violente dell’autista che lo accompagnava e tentava di convincerlo della bontà dell’idea che ogni ebreo si incaricasse di sterminare un certo numero di arabi per risolvere il conflitto in Medio Oriente, rispondeva: "Ok, supponiamo allora che a lei venga assegnato un condominio nella sua città, Haifa, e debba bussare a ogni porta o suonare il campanello, e domandare: «Mi scusi signore, o mi scusi signora, lei è arabo?» e se la risposta è sì, allora sparare. Poi lei finisce il suo condominio, se ne sta per andare a casa, ma in quel momento sente che su al quarto piano c’è un bimbo che piange. Che fa, torna indietro e spara al bambino? Sì o no?”. E a quel punto, l’autista, dopo qualche minuto di silenzio, ribatteva: “Lo sa, lei è molto crudele”.
Se immaginare serve, magari poco ma serve, al fanatico dichiarato, a maggior ragione può aiutare coloro che tali non si sentono e spesso sono pronti a indignarsi davanti alle più diverse manifestazioni di intolleranza verso gli altri, è la considerazione conclusiva dell’autore.
Pensare che Oz abbia ragione è facile.
Vivere la ragione di Oz è più difficile.
Una conoscente, madre di un bambino gravemente disabile, mi disse un giorno che solo chi è madre di un figlio portatore di handicap è veramente madre e sa che cosa significhi esserlo.
“Cara signora, mi confidò una volta una donna molto distinta e cordiale, lei non sa che cosa voglia dire avere due figli maschi. Non è certo come avere due bambine, più pulite, più obbedienti. Danno anche più soddisfazioni, sa. Io, invece, ho davvero molto da fare. Per non parlare poi di chi ne ha uno solo di figlio e non sa proprio come ti cambia la vita il secondo.”
E una vicina di casa gentile, vedova da poco, mi ripetè all’infinito che no, non potevo capire il suo dolore, perché non ci ero passata. Solo chi aveva subito una perdita come la sua poteva capire, forse, la sua angoscia.
Anche queste, educate ma esplicite accuse di inadeguatezza, sono forme mascherate di fanatismo.
Avrei preferenza di no, non vorrei vivere le vostre vite, vorrei rispondere. Mi basta la mia.
Rassegniamoci. Vorremmo sempre vincere, non importa se in gioie o in dolori, forse neanche ci interessa veramente, vorremmo avere o essere, quasi si confondono, qualcosa in più degli altri. Ma il destino vuole che in più abbiamo la nostra di vita, in meno abbiamo quella altrui. Pareggio. Questo campionato non lo vince nessuno.
Non resta che immaginare, allora, la vita degli altri. E accettare che basti. E sia già molto.
Anche se non serve al possesso e aiuta “solo” a sentire il pianto sommesso della donna sola senza il compagno della sua vita, ad ascoltare l’insofferenza di una famiglia che si sta perdendo nella rincorsa del solo benessere visibile e socialmente appagante, a leggere tra le rughe di una madre stanca i segni del dolore di una maternità ferita nei desideri della sua giovinezza.
Immaginare serve a poco, insomma, ma non farlo e vivere singolarmente la propria vita disconoscendo il plurale sarebbe l’unica, vera sconfitta.

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