L’attualità profonda, importantissima, della vicenda Ambrosoli non si limita solo al profilo esemplare del protagonista. Purtroppo non dimostrano di aver perso attualità neppure i suoi tanti nemici: i politici devianti, la grande criminalità organizzata intrecciata con gli ambienti più eversivi della massoneria, quel filo che lega ambigui capitali e il sottosuolo malavitoso di un paese la cui libertà è ostacolo per gli interessi occulti dei tanti potenti fuorilegge. […]
Giorgio Ambrosoli è simbolo del grande, terribile scontro tra i poteri forti, basati sulle deviazioni delle regole, e i valori forti, dall’onestà alla trasparenza, che devono contraddistinguere una democrazia compiuta.
[M. De Luca, La lezione di un eroe borghese, in AA.VV. Giorgio Ambrosoli: «Nel rispetto di quei valori», interlinea edizioni 1997]
Non so quanti si ricordino di quest’avvocato ucciso l’11 luglio 1979 sotto la sua casa nel cuore di Milano. Professionista stimato e silente, di intima convinzione monarchica sfumata in un liberalismo più che moderato e lontano dalla politica dei partiti, fu nominato liquidatore della banca di Michele Sindona, il potente garante dei rapporti profondi tra mafia e politica. Per questo, per la sua onestà, per il rigore con cui interpretò il ruolo di servitore dello Stato che si trovò a vivere con profondo rispetto della legge e con incredula amarezza verso l’illegalità diffusa e impunita che lo circondava nei palazzi del potere, venne assassinato da un sicario di Sindona che orchestrava dagli Stati Uniti le vicende economiche e non solo del nostro Paese.
Non so davvero quanti tra le generazioni che seguono la mia, in particolare tra i più giovani, tra i ragazzi che affollano per dovere le aule scolastiche e per piacere i centri commerciali, prima e sempre consumatori e poi cittadini se capita, sappiano quanto è importante conoscere l’attività e il pensiero di un uomo come Ambrosoli.
E vorrei che molti di loro desiderassero conoscere la storia di uomini come il giudice Alessandrini, il giornalista Tobagi, il sindacalista Rossa, il giovane Impastato, il giurista Bachelet, il politico Moro. Tra i tanti morti degli anni ’70, questi sono accomunati dalla volontà di capire, di lavorare, di favorire la crescita di un Paese che stava cercando un nuovo equilibrio politico, intellettuale ed economico.
Quando rapirono Aldo Moro, il liceo che frequentavo stava vivendo giorni di autogestione, molti di noi partecipavano quotidianamente ad assemblee che oggi si chiamerebbero di didattica alternativa e si concorderebbero con il preside, ma che una volta si dovevano conquistare con gli scioperi e si pagavano con le ritorsioni degli insegnanti.
Non so chi diede la notizia, ma la notizia del fatto arrivò e quando arrivò, le parole lo chiamarono tragedia.
Ricordo che mi sentii smarrita, ancora non votavo, ma ero curiosa, impegnata nel sociale, giovane davvero insomma, e mi ritrovai piena di inquietudine. Scelsi di tornare in classe, avevo voglia di un adulto che mi spiegasse, mi aiutasse a capire e mi desse anche un po’ di conforto. Nessuno lo fece e in tanti cominciammo a nutrire la paura del vuoto e dell’indifferenza che a diversi livelli si stava impadronendo delle maglie della vita pubblica, a partire dalla scuola.
Quando il corpo di Moro fu ritrovato sembrava che sui giornali e nella nostra attenzione non ci fosse spazio per altro. Dopo pagine e pagine di infinito dolore ufficiale e pubblico, mi imbattei in un brevissimo articolo che riferiva della fine drammatica, ma all’apparenza per niente politica, di un giovane siciliano il cui corpo era stato travolto da un treno in corsa. Ricordo che mi chiesi chi mai si sarebbe accorto e ricordato di questo ragazzo in giorni così feroci per lo Stato. Presto si scoprì che Peppino Impastato era stato in realtà vittima della mafia che l’aveva sequestrato, pestato e fatto “suicidare” sulle rotaie.
Così lontani, così vicini: nel giorno del lutto nazionale, c’erano molti altri motivi e morti per piangere sull’Italia.
In queste settimane confuse, il pensiero è andato spontaneo a tutte le vittime di quegli anni. Forse a caccia di esempi di onestà, seppure pagata con il sangue, forse per spolverare i modi della consapevolezza e della reazione.
Allora la violenza spargeva sangue ma anche indignazione e rabbia, mentre oggi, distillata nei dibattiti e nei salotti televisivi, non stupisce nemmeno per l’arroganza e la presunzione di potere che ostenta.
Oggi si può dire che gli operai muoiano per colpa loro, può accadere che le condanne si festeggino a pastarelle, si può affermare che il Nord farà la rivoluzione armata – e le armi si troveranno! – senza che tutti sentano l’esigenza di smascherare e additare prima di tutto la profonda violenza morale che parole simili nascondono e comportano.
"fabbricare, fabbricare, fabbricare / preferisco il rumore del mare / che dice fabbricare fare e disfare / fare e disfare è tutto un lavorare / ecco quello che so fare. scrivete. addio" (D. Campana, Cartolina postale del 13 ottobre 1916, in S. Aleramo, D. Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, Feltrinelli, Milano 2000, p. 72)
domenica 27 gennaio 2008
martedì 15 gennaio 2008
Gi spifferi
Se c’è qualcosa da cantare è il cambio del vento,
quando da ovest si fa a est, e, gelando, la fronda
a sinistra si sposta, con scricchi di malcontento
quando da ovest si fa a est, e, gelando, la fronda
a sinistra si sposta, con scricchi di malcontento
[…]
[Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi 1986]
“Con lui ho chiuso”, diceva all’amica la donna che mi stava seduta accanto sul treno.
Da qualche dettaglio era abbastanza ovvio che si riferisse a una storia d’amore che, come dire, passava la mano.
“E adesso?”, si sorprendeva l’altra.
“Adesso niente, quando si chiude, si chiude. Ognuno per la sua strada. Ho solo voglia di dimenticare”, ribadiva non senza veemenza la prima.
Certo ciascuno avrà avuto le sue buone ragioni , penso, e d’altro canto tutti hanno buone ragioni anche per cattive azioni – oggi si chiama eterogenesi dei fini -, ma spio con ansia se i suoi gesti tradiscano il freddo che le arriverà dalla breccia aperta: un’increspatura delle labbra, la sciarpa riannodata, la ricerca di una caramella per la gola.
Niente di tutto questo. Il verbo chiudere non le sembra una porta tarlata. Per un attimo le intuisco in viso solo la gioia del cambiamento e l’idea di aprire una nuova strada, (abbiamo bisogno di pensare che i catenacci siano garantiti per praticare grammatiche di speranza).
Ripenso alle parole del vecchio abitante di Villa Cesarina: "La vita è come un vestito, ogni volta che ti siedi fa una piega che non vuoi. Puoi stirarlo, certo, se sei ricco lo fai fare agli altri, ma non è più nuovo. Per non fare brutte figure lo lavi e lo stiri, ma tu sai quante volte ci hai messo mano e, chissà, forse un giorno impari anche a sederti meglio, magari a non far vedere che in quel punto è un po’ liso e ti copre meno. In fondo solo tu ti accorgi se prendi freddo. Ma insomma, consumato è consumato. Anche i re e le regine si consumano. Oggi i vestiti li vendono già sciupati, così non pensiamo che sia colpa nostra se si rovinano in fretta".
Guardo le vite indossate nello scompartimento di questa mattina e mi chiedo da quanto siano così accartocciate, visto che l’anno appena iniziato è fresco di sartoria.
Vedo la mia vicina pronta per scendere: sistema la gonna, si adatta il piumino, infila guanti e cappello. Nient’affatto sgualcita, anzi all’apparenza graziosa.
Arrivata al lavoro, si siederà e forse i nuovi discorsi saranno pieghe nuove.
Una volta a casa penserà di chiudere con i vestiti segnati dal mestiere. Gli spifferi degli affetti hanno bisogno di altri colori, di tessuti più resistenti e più sicure protezioni.
Ma se la vita è davvero un vestito, di tutto porta orma e sempre assomma usura: le assenze e le presenze, i silenzi e le parole, il negato e l’ammesso che nessuna mano per quanto abile riesce a cancellare. Crepacci dissimulati nel quotidiano.
“Domani è un altro giorno”, recita il teorema di chi ha trovato la formula che mondi possa aprirci. Forse, in verità, è solo il marchio di una linea di abbigliamento.
[Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi 1986]
“Con lui ho chiuso”, diceva all’amica la donna che mi stava seduta accanto sul treno.
Da qualche dettaglio era abbastanza ovvio che si riferisse a una storia d’amore che, come dire, passava la mano.
“E adesso?”, si sorprendeva l’altra.
“Adesso niente, quando si chiude, si chiude. Ognuno per la sua strada. Ho solo voglia di dimenticare”, ribadiva non senza veemenza la prima.
Certo ciascuno avrà avuto le sue buone ragioni , penso, e d’altro canto tutti hanno buone ragioni anche per cattive azioni – oggi si chiama eterogenesi dei fini -, ma spio con ansia se i suoi gesti tradiscano il freddo che le arriverà dalla breccia aperta: un’increspatura delle labbra, la sciarpa riannodata, la ricerca di una caramella per la gola.
Niente di tutto questo. Il verbo chiudere non le sembra una porta tarlata. Per un attimo le intuisco in viso solo la gioia del cambiamento e l’idea di aprire una nuova strada, (abbiamo bisogno di pensare che i catenacci siano garantiti per praticare grammatiche di speranza).
Ripenso alle parole del vecchio abitante di Villa Cesarina: "La vita è come un vestito, ogni volta che ti siedi fa una piega che non vuoi. Puoi stirarlo, certo, se sei ricco lo fai fare agli altri, ma non è più nuovo. Per non fare brutte figure lo lavi e lo stiri, ma tu sai quante volte ci hai messo mano e, chissà, forse un giorno impari anche a sederti meglio, magari a non far vedere che in quel punto è un po’ liso e ti copre meno. In fondo solo tu ti accorgi se prendi freddo. Ma insomma, consumato è consumato. Anche i re e le regine si consumano. Oggi i vestiti li vendono già sciupati, così non pensiamo che sia colpa nostra se si rovinano in fretta".
Guardo le vite indossate nello scompartimento di questa mattina e mi chiedo da quanto siano così accartocciate, visto che l’anno appena iniziato è fresco di sartoria.
Vedo la mia vicina pronta per scendere: sistema la gonna, si adatta il piumino, infila guanti e cappello. Nient’affatto sgualcita, anzi all’apparenza graziosa.
Arrivata al lavoro, si siederà e forse i nuovi discorsi saranno pieghe nuove.
Una volta a casa penserà di chiudere con i vestiti segnati dal mestiere. Gli spifferi degli affetti hanno bisogno di altri colori, di tessuti più resistenti e più sicure protezioni.
Ma se la vita è davvero un vestito, di tutto porta orma e sempre assomma usura: le assenze e le presenze, i silenzi e le parole, il negato e l’ammesso che nessuna mano per quanto abile riesce a cancellare. Crepacci dissimulati nel quotidiano.
“Domani è un altro giorno”, recita il teorema di chi ha trovato la formula che mondi possa aprirci. Forse, in verità, è solo il marchio di una linea di abbigliamento.
martedì 1 gennaio 2008
Benvenuti
I Re Magi
Hanno perduto la Stella una sera. Perché si perde
la Stella? A volte, per averla troppo guardata…
I due Re Bianchi, che erano saggi di Caldea,
hanno tracciato dei cerchi al suolo, col bastone.
Hanno fatto dei calcoli, grattandosi il mento…
Ma la Stella è sfuggita, come sfugge un’idea,
e costoro, la cui anima ha sete d’una guida,
hanno pianto, drizzando le tende di cotone.
Ma il povero Re Nero, che gli altri due disprezzano,
dice tra sé e se: «Pensiamo alla sete degli altri.
Bisogna dar da bere, comunque, agli animali».
E mentre sta reggendo il secchio per il manico,
nell’umile ansa di cielo in cui bevono i cammelli,
scorge la Stella d’oro, che danza silenziosa.
[Edmond Rostand, Le cantique de l’Aile, trad. di C. Poma, Fasquelle, Paris 1922]
L’autore del Cyrano per gli auguri di inizio anno.
Quale migliore istruzione per l’uso del nuovo pacchetto regalo che si scarta dal primo gennaio.
Tutto ciò che si può sinceramente augurare e intimamente realizzare è scritto lì, tra i borbottii increduli di chi credeva di sapere e il bisbiglio quieto di chi sceglie di fare.
Comunque vada l’anno, ci saranno occasioni in cui sfuggirà il senso e la vista e la ragione e la voglia e la meta e le forze…
Qualunque cosa accadrà, ci sarà però un’altra azione, un altro pensiero, un altro bene da fare e da dare. E da diventare.
Per molto tempo ho pensato e spesso ripetuto quanto sia difficile nella vita imparare a bussare. Le porte non mancano, dicevo, bussate e qualcuno aprirà. Magari non si spalancherà la porta dell’amico atteso e desiderato, ma una porta si aprirà, fossanche quella di un vicino seccato dal rumore insistente prodotto dalle vostre nocche. Sarebbe comunque una voce e un volto e una sorpresa della vita.
Un giorno però nel mezzo di un dolore afoso io stessa non trovavo né mani, né speranza. Solo porte irrimediabilmente chiuse. E la mia storia sembrava non bastare. Finché un rumore mi ha fatto guardare verso un altro punto della stanza, in basso in un angolo sconosciuto cercava la mia attenzione un animale che sembrava in pieno risveglio, che certo aveva fame e voglia di luce e di prati. In pratica aveva voglia anche di me, di sperare che io fossi la sua speranza.
Non avrei mai immaginato che la porta fosse lì, pensavo fosse sufficiente guardarsi intorno, ad altezza di porta…umana.
Cercavo di capire e sono stata annusata, volevo trovare e sono stata trovata.
Qualche tempo fa Ettore Sottsass, scomparso da poche ore, in un’ intervista in occasione dell’ ultima mostra a lui dedicata a Trieste, alla domanda se si sentisse più capito o solo venduto ha risposto «Mah,…non c’è da capire, ma da amare».
E allora buon anno, un anno buono, a tutti.
Hanno perduto la Stella una sera. Perché si perde
la Stella? A volte, per averla troppo guardata…
I due Re Bianchi, che erano saggi di Caldea,
hanno tracciato dei cerchi al suolo, col bastone.
Hanno fatto dei calcoli, grattandosi il mento…
Ma la Stella è sfuggita, come sfugge un’idea,
e costoro, la cui anima ha sete d’una guida,
hanno pianto, drizzando le tende di cotone.
Ma il povero Re Nero, che gli altri due disprezzano,
dice tra sé e se: «Pensiamo alla sete degli altri.
Bisogna dar da bere, comunque, agli animali».
E mentre sta reggendo il secchio per il manico,
nell’umile ansa di cielo in cui bevono i cammelli,
scorge la Stella d’oro, che danza silenziosa.
[Edmond Rostand, Le cantique de l’Aile, trad. di C. Poma, Fasquelle, Paris 1922]
L’autore del Cyrano per gli auguri di inizio anno.
Quale migliore istruzione per l’uso del nuovo pacchetto regalo che si scarta dal primo gennaio.
Tutto ciò che si può sinceramente augurare e intimamente realizzare è scritto lì, tra i borbottii increduli di chi credeva di sapere e il bisbiglio quieto di chi sceglie di fare.
Comunque vada l’anno, ci saranno occasioni in cui sfuggirà il senso e la vista e la ragione e la voglia e la meta e le forze…
Qualunque cosa accadrà, ci sarà però un’altra azione, un altro pensiero, un altro bene da fare e da dare. E da diventare.
Per molto tempo ho pensato e spesso ripetuto quanto sia difficile nella vita imparare a bussare. Le porte non mancano, dicevo, bussate e qualcuno aprirà. Magari non si spalancherà la porta dell’amico atteso e desiderato, ma una porta si aprirà, fossanche quella di un vicino seccato dal rumore insistente prodotto dalle vostre nocche. Sarebbe comunque una voce e un volto e una sorpresa della vita.
Un giorno però nel mezzo di un dolore afoso io stessa non trovavo né mani, né speranza. Solo porte irrimediabilmente chiuse. E la mia storia sembrava non bastare. Finché un rumore mi ha fatto guardare verso un altro punto della stanza, in basso in un angolo sconosciuto cercava la mia attenzione un animale che sembrava in pieno risveglio, che certo aveva fame e voglia di luce e di prati. In pratica aveva voglia anche di me, di sperare che io fossi la sua speranza.
Non avrei mai immaginato che la porta fosse lì, pensavo fosse sufficiente guardarsi intorno, ad altezza di porta…umana.
Cercavo di capire e sono stata annusata, volevo trovare e sono stata trovata.
Qualche tempo fa Ettore Sottsass, scomparso da poche ore, in un’ intervista in occasione dell’ ultima mostra a lui dedicata a Trieste, alla domanda se si sentisse più capito o solo venduto ha risposto «Mah,…non c’è da capire, ma da amare».
E allora buon anno, un anno buono, a tutti.