domenica 27 gennaio 2008

Ahi serva Italia

L’attualità profonda, importantissima, della vicenda Ambrosoli non si limita solo al profilo esemplare del protagonista. Purtroppo non dimostrano di aver perso attualità neppure i suoi tanti nemici: i politici devianti, la grande criminalità organizzata intrecciata con gli ambienti più eversivi della massoneria, quel filo che lega ambigui capitali e il sottosuolo malavitoso di un paese la cui libertà è ostacolo per gli interessi occulti dei tanti potenti fuorilegge. […]
Giorgio Ambrosoli è simbolo del grande, terribile scontro tra i poteri forti, basati sulle deviazioni delle regole, e i valori forti, dall’onestà alla trasparenza, che devono contraddistinguere una democrazia compiuta.
[M. De Luca, La lezione di un eroe borghese, in AA.VV. Giorgio Ambrosoli: «Nel rispetto di quei valori», interlinea edizioni 1997]

Non so quanti si ricordino di quest’avvocato ucciso l’11 luglio 1979 sotto la sua casa nel cuore di Milano. Professionista stimato e silente, di intima convinzione monarchica sfumata in un liberalismo più che moderato e lontano dalla politica dei partiti, fu nominato liquidatore della banca di Michele Sindona, il potente garante dei rapporti profondi tra mafia e politica. Per questo, per la sua onestà, per il rigore con cui interpretò il ruolo di servitore dello Stato che si trovò a vivere con profondo rispetto della legge e con incredula amarezza verso l’illegalità diffusa e impunita che lo circondava nei palazzi del potere, venne assassinato da un sicario di Sindona che orchestrava dagli Stati Uniti le vicende economiche e non solo del nostro Paese.
Non so davvero quanti tra le generazioni che seguono la mia, in particolare tra i più giovani, tra i ragazzi che affollano per dovere le aule scolastiche e per piacere i centri commerciali, prima e sempre consumatori e poi cittadini se capita, sappiano quanto è importante conoscere l’attività e il pensiero di un uomo come Ambrosoli.
E vorrei che molti di loro desiderassero conoscere la storia di uomini come il giudice Alessandrini, il giornalista Tobagi, il sindacalista Rossa, il giovane Impastato, il giurista Bachelet, il politico Moro. Tra i tanti morti degli anni ’70, questi sono accomunati dalla volontà di capire, di lavorare, di favorire la crescita di un Paese che stava cercando un nuovo equilibrio politico, intellettuale ed economico.
Quando rapirono Aldo Moro, il liceo che frequentavo stava vivendo giorni di autogestione, molti di noi partecipavano quotidianamente ad assemblee che oggi si chiamerebbero di didattica alternativa e si concorderebbero con il preside, ma che una volta si dovevano conquistare con gli scioperi e si pagavano con le ritorsioni degli insegnanti.
Non so chi diede la notizia, ma la notizia del fatto arrivò e quando arrivò, le parole lo chiamarono tragedia.
Ricordo che mi sentii smarrita, ancora non votavo, ma ero curiosa, impegnata nel sociale, giovane davvero insomma, e mi ritrovai piena di inquietudine. Scelsi di tornare in classe, avevo voglia di un adulto che mi spiegasse, mi aiutasse a capire e mi desse anche un po’ di conforto. Nessuno lo fece e in tanti cominciammo a nutrire la paura del vuoto e dell’indifferenza che a diversi livelli si stava impadronendo delle maglie della vita pubblica, a partire dalla scuola.
Quando il corpo di Moro fu ritrovato sembrava che sui giornali e nella nostra attenzione non ci fosse spazio per altro. Dopo pagine e pagine di infinito dolore ufficiale e pubblico, mi imbattei in un brevissimo articolo che riferiva della fine drammatica, ma all’apparenza per niente politica, di un giovane siciliano il cui corpo era stato travolto da un treno in corsa. Ricordo che mi chiesi chi mai si sarebbe accorto e ricordato di questo ragazzo in giorni così feroci per lo Stato. Presto si scoprì che Peppino Impastato era stato in realtà vittima della mafia che l’aveva sequestrato, pestato e fatto “suicidare” sulle rotaie.
Così lontani, così vicini: nel giorno del lutto nazionale, c’erano molti altri motivi e morti per piangere sull’Italia.
In queste settimane confuse, il pensiero è andato spontaneo a tutte le vittime di quegli anni. Forse a caccia di esempi di onestà, seppure pagata con il sangue, forse per spolverare i modi della consapevolezza e della reazione.
Allora la violenza spargeva sangue ma anche indignazione e rabbia, mentre oggi, distillata nei dibattiti e nei salotti televisivi, non stupisce nemmeno per l’arroganza e la presunzione di potere che ostenta.
Oggi si può dire che gli operai muoiano per colpa loro, può accadere che le condanne si festeggino a pastarelle, si può affermare che il Nord farà la rivoluzione armata – e le armi si troveranno! – senza che tutti sentano l’esigenza di smascherare e additare prima di tutto la profonda violenza morale che parole simili nascondono e comportano.

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