quando da ovest si fa a est, e, gelando, la fronda
a sinistra si sposta, con scricchi di malcontento
[…]
[Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi 1986]
“Con lui ho chiuso”, diceva all’amica la donna che mi stava seduta accanto sul treno.
Da qualche dettaglio era abbastanza ovvio che si riferisse a una storia d’amore che, come dire, passava la mano.
“E adesso?”, si sorprendeva l’altra.
“Adesso niente, quando si chiude, si chiude. Ognuno per la sua strada. Ho solo voglia di dimenticare”, ribadiva non senza veemenza la prima.
Certo ciascuno avrà avuto le sue buone ragioni , penso, e d’altro canto tutti hanno buone ragioni anche per cattive azioni – oggi si chiama eterogenesi dei fini -, ma spio con ansia se i suoi gesti tradiscano il freddo che le arriverà dalla breccia aperta: un’increspatura delle labbra, la sciarpa riannodata, la ricerca di una caramella per la gola.
Niente di tutto questo. Il verbo chiudere non le sembra una porta tarlata. Per un attimo le intuisco in viso solo la gioia del cambiamento e l’idea di aprire una nuova strada, (abbiamo bisogno di pensare che i catenacci siano garantiti per praticare grammatiche di speranza).
Ripenso alle parole del vecchio abitante di Villa Cesarina: "La vita è come un vestito, ogni volta che ti siedi fa una piega che non vuoi. Puoi stirarlo, certo, se sei ricco lo fai fare agli altri, ma non è più nuovo. Per non fare brutte figure lo lavi e lo stiri, ma tu sai quante volte ci hai messo mano e, chissà, forse un giorno impari anche a sederti meglio, magari a non far vedere che in quel punto è un po’ liso e ti copre meno. In fondo solo tu ti accorgi se prendi freddo. Ma insomma, consumato è consumato. Anche i re e le regine si consumano. Oggi i vestiti li vendono già sciupati, così non pensiamo che sia colpa nostra se si rovinano in fretta".
Guardo le vite indossate nello scompartimento di questa mattina e mi chiedo da quanto siano così accartocciate, visto che l’anno appena iniziato è fresco di sartoria.
Vedo la mia vicina pronta per scendere: sistema la gonna, si adatta il piumino, infila guanti e cappello. Nient’affatto sgualcita, anzi all’apparenza graziosa.
Arrivata al lavoro, si siederà e forse i nuovi discorsi saranno pieghe nuove.
Una volta a casa penserà di chiudere con i vestiti segnati dal mestiere. Gli spifferi degli affetti hanno bisogno di altri colori, di tessuti più resistenti e più sicure protezioni.
Ma se la vita è davvero un vestito, di tutto porta orma e sempre assomma usura: le assenze e le presenze, i silenzi e le parole, il negato e l’ammesso che nessuna mano per quanto abile riesce a cancellare. Crepacci dissimulati nel quotidiano.
“Domani è un altro giorno”, recita il teorema di chi ha trovato la formula che mondi possa aprirci. Forse, in verità, è solo il marchio di una linea di abbigliamento.
[Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi 1986]
“Con lui ho chiuso”, diceva all’amica la donna che mi stava seduta accanto sul treno.
Da qualche dettaglio era abbastanza ovvio che si riferisse a una storia d’amore che, come dire, passava la mano.
“E adesso?”, si sorprendeva l’altra.
“Adesso niente, quando si chiude, si chiude. Ognuno per la sua strada. Ho solo voglia di dimenticare”, ribadiva non senza veemenza la prima.
Certo ciascuno avrà avuto le sue buone ragioni , penso, e d’altro canto tutti hanno buone ragioni anche per cattive azioni – oggi si chiama eterogenesi dei fini -, ma spio con ansia se i suoi gesti tradiscano il freddo che le arriverà dalla breccia aperta: un’increspatura delle labbra, la sciarpa riannodata, la ricerca di una caramella per la gola.
Niente di tutto questo. Il verbo chiudere non le sembra una porta tarlata. Per un attimo le intuisco in viso solo la gioia del cambiamento e l’idea di aprire una nuova strada, (abbiamo bisogno di pensare che i catenacci siano garantiti per praticare grammatiche di speranza).
Ripenso alle parole del vecchio abitante di Villa Cesarina: "La vita è come un vestito, ogni volta che ti siedi fa una piega che non vuoi. Puoi stirarlo, certo, se sei ricco lo fai fare agli altri, ma non è più nuovo. Per non fare brutte figure lo lavi e lo stiri, ma tu sai quante volte ci hai messo mano e, chissà, forse un giorno impari anche a sederti meglio, magari a non far vedere che in quel punto è un po’ liso e ti copre meno. In fondo solo tu ti accorgi se prendi freddo. Ma insomma, consumato è consumato. Anche i re e le regine si consumano. Oggi i vestiti li vendono già sciupati, così non pensiamo che sia colpa nostra se si rovinano in fretta".
Guardo le vite indossate nello scompartimento di questa mattina e mi chiedo da quanto siano così accartocciate, visto che l’anno appena iniziato è fresco di sartoria.
Vedo la mia vicina pronta per scendere: sistema la gonna, si adatta il piumino, infila guanti e cappello. Nient’affatto sgualcita, anzi all’apparenza graziosa.
Arrivata al lavoro, si siederà e forse i nuovi discorsi saranno pieghe nuove.
Una volta a casa penserà di chiudere con i vestiti segnati dal mestiere. Gli spifferi degli affetti hanno bisogno di altri colori, di tessuti più resistenti e più sicure protezioni.
Ma se la vita è davvero un vestito, di tutto porta orma e sempre assomma usura: le assenze e le presenze, i silenzi e le parole, il negato e l’ammesso che nessuna mano per quanto abile riesce a cancellare. Crepacci dissimulati nel quotidiano.
“Domani è un altro giorno”, recita il teorema di chi ha trovato la formula che mondi possa aprirci. Forse, in verità, è solo il marchio di una linea di abbigliamento.
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