Nei racconti che leggeva la maestra compariva spesso una fanciullina dagli abiti modesti, che abitava in una casa modesta, dove di solito appariva una tavola apparecchiata modestamente (a quel punto io, che non riuscivo bene ad afferrare il significato del termine, se non associandolo magari ai vestiti indossati da Cenerentola prima del principesco matrimonio, immaginavo soprattutto un tavolo abitato da frutta di piccole dimensioni, che mi sembrava il segnale più evidente della “modestia”: non di rado ancora oggi spesso mi scopro a sbirciare la spesa e le mani di chi sceglie la frutta di piccolo calibro, massimo emblema della mia modestia immaginaria appunto).
Di questi tempi l’aggettivo compare raramente, solo nelle cronache locali riferito alla vita o alle abitudini di qualche improvvisato delinquente di provincia (o delle sue vittime). Da quando, però, la fantasticheria silenziosa delle parole è guidata dall’influenza delle immagini televisive che non lasciano spazio a un’adeguata conoscenza del vocabolario né a originali scampagnate dei pensieri, fatichiamo a recuperare il senso delle parole. E della vita.
Quale casa è modesta? Quanti locali e quanta oggettistica richiede la modestia? Una bigiotteria smagliante fa la donna più modesta di un unico monile d’oro ben indossato? E un buco nel calzino di un uomo di potere basta a renderlo modesto? Modestia è avere le scarpe rotte, averne meno degli altri o essere consapevole dei propri piedi? Sarà più modesto credere o dubitare? E che cosa sarà nobilmente modesto, coltivare l’essenziale o pensare che è essenziale realizzare i nostri desideri?
Alla fine mi sembra che siamo diventati tutti invariabilmente modesti: chi possiede e chi no, chi ha parole e chi è muto, tutti accomunati dalla modestia dell’incultura, che ci toglie il respiro della coscienza.