domenica 26 febbraio 2012

Dire o non dire

Non si sa che cosa dire vuol dire che verrebbero in mente delle cose da dire, ma che si sente o si capisce che quelle cose lì non sono adeguate, non sono sufficienti, non bastano, non risolvono, non smuovono, non raggiungono, spesso non sfiorano nemmeno la complessità, la profondità, il senso di ciò che si è presentato sulla scena del discorso: tanto più se significativamente per chi parla e per chi ascolta. 
E allora ci si ferma, sull’orlo di un abisso. 
E non si dice.
[Stefan0 Bolognini, Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire, Bollati Boringhieri]

Il cassiere ha visto. La persona alla destra della cassa era arrivata prima di quella alla sinistra. Nettamente. Poca gente, la coda giusta per un martedì.
“Prego, a chi tocca?”, è la formula di rito, non conta ciò che si vede e si sa.
“A me”, dice a voce alta quella di sinistra.
Quella di destra la guarda in silenzio, perché anche nelle piccole cose il diritto dovrebbe essere trasparente. Il cassiere tace.
“Ma è chiaro che tocca a me, mi ero appoggiata alla cassa, guardi ho i soldi in mano”, parla – grida - solo la signora di sinistra. Nessuno la ostacola nella sua galoppata trionfante, ma insiste, vuole vincere la gara del giorno.
Il cassiere procede, il suo contratto gli impone di scivolare tra le pieghe e le scuciture della realtà, mentre l’altra resta muta.
“Che dire? E’ incredibile, ma è sempre più spesso così”, commenta il ragazzo all’uscita dal ring della combattente.
“Non ci sono parole”, accenna l’acquirente doppiata.

Non sapere cosa dire salverà pure se stessi dall’abisso ma, qualche volta, sogna di spingere l’altro nell’abisso. Così, per risolvere un problema.

martedì 21 febbraio 2012

Su e giù

A me ha sempre colpito favorevolmente il fatto che una persona con cui parli, se è una donna è più facile che possa sorridere di una cosa da niente e immediatamente dopo fare un discorso di filosofia. Gli uomini staccano i due piani.
(Giancarlo Majorino)

Non è che noi facciamo cose diverse “ immediatamente dopo”. In genere noi facciamo tutto“mentre”, e così ci alleniamo moltissimo: la nostra vita è una specie di condominio senza ascensore, di casa con tante finestre, di album di figurine (non importa se doppie, ci piacciono anche di più).

Rispondiamo al capo mentre speriamo che il figlio piccolo abbia meno febbre; facciamo la spesa mentre ripassiamo la relazione per la riunione della mattina successiva; prepariamo la cena mentre ascoltiamo le infelicità sentimentali della figlia grande.

E, garantisco, si può parlare di letteratura, di filosofia e anche di scienza mentre si sorride, non in superficie, ma proprio dentro, in fondo al cuore e alla pancia, un po’ contente di essere le uniche in grado di partorire il “mentre”.

domenica 12 febbraio 2012

Per piacere

C’è una profonda differenza tra la cortesia formale e quella sostanziale, la gentilezza: per la seconda ci vuole più intelligenza. Nel primo caso la persona pensa a sé, al suo territorio ed è cortese per difesa. Nel secondo, si pensa soprattutto alla relazione fra sé e l’altro, e si vuole il benessere emotivo reciproco.
[G. Axia, Elogio della cortesia]

Capita spesso di sentire persone che, nel fare il loro lavoro o, meglio, nell’enunciare il lavoro che stanno per fare (e già su questo ci sarebbe più di qualcosa da dire), dicono all’interlocutore che “per correttezza” lo informano.

Il più delle volte di “corretto” in tutta questa informazione (e nella relativa azione) non c’è nulla, salvo l’interesse privato e il calcolo personale ipocritamente nascosto nella formula di cortesia non richiesta.

Come non dubitare istintivamente di chi si dice corretto?

Primo, perché se lo dice da solo, quasi fosse, nel contempo, maestro e studente, promotore e promosso.

E poi perché nei momenti che contano davvero nella vita nessuno si sognerebbe di fare alcunché per correttezza, semmai per misericordia, per passione o compassione, magari per necessità, qualche volta per amore (incredibile, vero?), ma per correttezza no, davvero no.

Evitiamo di evocarla, la correttezza, che quando compare attecchisce nel prato della vita come un’erba infestante e lentamente soffoca i fiori, del piacere o del dovere che siano.

domenica 5 febbraio 2012

Sceneggiature

Una sola cosa mi meraviglia più della stupidità con la quale la maggior parte degli uomini vive la sua vita: l’intelligenza che c’è in questa stupidità. 
[F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli 2003]

Ovunque, tra madri:
Potresti chiederle come fa con i suoi.
No, lei ha i figli grandi.

Davanti a un ascensore guasto, tra vicini di casa:
Ancora!
Ma lei abita al primo piano, io al quarto.

Ovunque, tra madri:
E’ stata brava a crescerli così.
Vorrei vedere, non è mai andata a lavorare.

Al parcheggio di un ospedale, tra conoscenti:
Mio cugino è ricoverato per una frattura.
Ah beh, mio cognato ha un tumore.

Ovunque, tra madri:
Anche quest’anno è stato promosso.
Con tutte le ripetizioni che hanno pagato.

In ufficio tra colleghe:
E’ stato un parto semplice, in un certo senso.
Ovvio, è il quarto.

Ovunque, tra madri:
Partirà per un dottorato.
Certe cose si fanno solo se si hanno i soldi.

La domenica pomeriggio tra parenti:
Anche lui si sposa.
Facile, gli avete comprato casa.

Non ho trovato la scala di misurazione della stupidità, ma l’unità di misura è sicuramente il P.L.U. (parola in libera uscita).