Capita spesso di sentire persone che, nel fare il loro lavoro o, meglio, nell’enunciare il lavoro che stanno per fare (e già su questo ci sarebbe più di qualcosa da dire), dicono all’interlocutore che “per correttezza” lo informano.
Il più delle volte di “corretto” in tutta questa informazione (e nella relativa azione) non c’è nulla, salvo l’interesse privato e il calcolo personale ipocritamente nascosto nella formula di cortesia non richiesta.
Come non dubitare istintivamente di chi si dice corretto?
Primo, perché se lo dice da solo, quasi fosse, nel contempo, maestro e studente, promotore e promosso.
E poi perché nei momenti che contano davvero nella vita nessuno si sognerebbe di fare alcunché per correttezza, semmai per misericordia, per passione o compassione, magari per necessità, qualche volta per amore (incredibile, vero?), ma per correttezza no, davvero no.
Evitiamo di evocarla, la correttezza, che quando compare attecchisce nel prato della vita come un’erba infestante e lentamente soffoca i fiori, del piacere o del dovere che siano.
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