giovedì 2 dicembre 2010

Primo dicembre (bisogna mettere in ordine le cose)

L’albero del susino, laggiù,
le gardenie a sinistra,
più in là il blu.
Il mare.
Dove, amore,
metteremo il mare?
Gli anni in quaderni gialli
e la risata dorata quando badiamo ai gatti.
In quale cofanetto dell’inverno
metteremo il temporale?
In solaio le ore della tua assenza.
Gli allori, i gerani,
la menta ai piedi
di questa promessa.
Vedrai com’è imprevedibile la terra, amore,
se solo esisti.
[Carmen Yanez, Abitata dalla memoria, Guanda 2001]


Chiedo a Carmen le parole
per vederle stese al sole
sui balconi di vent’anni
tra le rose e pochi danni.

Non so Carmen se lo sa
ma l’inverno e il temporale
non son neanche tanto male
sempre che l’amore mio
resti dentro solatio.

domenica 14 novembre 2010

Tempo al tempo

Un’idea mi frulla,
scema come una rosa.
Dopo di noi non c’è nulla.
Nemmeno il nulla,
che già sarebbe qualcosa”.
[G. Caproni, Poesie 1932-1986, Garzanti 1989]


Forse adesso ho capito.
Sono stato tanti anni fa in ospedale, ma ci sono rimasto pochi giorni – giusto il tempo di nascere -: se le cose funzionassero, come potevo accorgermi?
Più grande ho frequentato la scuola: per quanto tempo? Credo il giusto per imparare ciò che tutti si aspettavano imparassi e che qualcosa non andasse proprio per il verso giusto, sì certo mi sembrava, ma ero impaziente di andarmene. Imparare e andare, questo era il mio motto. (Mio figlio ha fatto lo stesso, ne sono orgoglioso).
Al lavoro ci sono stato più o meno quarant’anni. Mensa accettabile, colleghi simpatici. Problemi? Norme di sicurezza? Privacy? Ma dai, altri tempi, meno male che me ne sono andato proprio quando le mie mansioni avrebbero richiesto più senso di responsabilità, più attenzioni. In fondo era come a scuola, lavorare e andare, questo mi interessava più di tutto.
A casa però ci ho vissuto poco, se conto le ore passate fuori. Dormire e uscire, stavolta potrei proprio dirla così.
A ventuno anni ho cominciato a votare: da allora è capitato tante volte, quasi sempre vedevo la tivù per scegliere uno che mi piacesse, ma dopo il voto basta telegiornali, per carità. La politica mi fa un po’ schifo perché sono sempre tutti uguali. Meglio i varietà e i film e a mia moglie ho comprato un televisore apposta per vedere quei programmi che le fanno passare il tempo e le piacciono tanto.
L’anno scorso sono tornato in ospedale: ho dovuto aspettare due settimane un esame, ma quando me l’hanno fatto era troppo tardi; mi hanno ricoverato in corsia – non c’era posto – e ho preso una brutta polmonite. Complicazioni inaspettate, hanno detto. Così sono morto. Cioè, anche questa volta me ne sono andato.
Forse adesso ho capito.

lunedì 1 novembre 2010

Favole al telefono

C’era una volta...
...il ragionier Bianchi, di Varese. Era un rappresentante di commercio e sei giorni su sette girava l’Italia intera, a Est, a Ovest, a Sud, a Nord e in mezzo, vendendo medicinali. La domenica tornava a casa sua, e il lunedì mattina ripartiva. Ma prima che partisse la sua bambina gli diceva: - Mi raccomando, papà: tutte le sere una storia.
[...] Così ogni sera, dovunque si trovasse, alle nove in punto il ragionier Bianchi chiamava al telefono Varese e raccontava storie alla sua bambina.
[...] Mi hanno detto che quando il signor Bianchi chiamava Varese le signorine del centralino sospendevano tutte le telefonate per ascoltare le sue storie. Sfido: alcune sono proprio belline.
[Gianni Rodari, Favole al telefono, Einaudi 1983]


Per lavoro ogni tanto ricevo indicazioni dal mio capo e a volte capita che tocchi a me darne ad altri.
Di solito lo facciamo per telefono e risolviamo in questo modo qualunque tipo di necessità comunicativa, come a dire che usiamo le “vie brevi” per raggiungere rapidamente lo scopo e solo dopo, una volta che tutto sembra essere portato a termine, e solo se necessario, si formalizza quanto stabilito con uno scritto ufficiale che resti agli atti.
Nella maggior parte dei casi, come si può ben immaginare, non si scrive nulla, perché basta la voce a tranquillizzare, incaricare, imporre.
Il telefono, dunque, rimane un mezzo potente eppure democratico (tutti lo possiedono e lo usano) e per questa ragione, ne sono certa, il presidente del consiglio se ne serve correntemente.
Usare il telefono è come essere il dominus indiscusso della relazione con l’altro cui è rivolta la chiamata (colui che chiama – fosse pure il partner - interrompe sempre la vita dell’interlocutore, nella sua ignorata declinazione professionale, sentimentale o familiare) e, contemporaneamente, il servus anonimo, nella misura in cui lo strumento usato è ordinario e comune, ai limiti della banalità.
E non deve stupire che un uomo che ama comandare e apparire uguale al comandato (presidente-operaio, editore-lettore et similia), non perda l’occasione più semplice per mostrarsi insieme produttore e spettatore dello stesso film (che ha anche recitato e diretto, tra l’altro). Ed è confuso come spesso capita agli spettatori cui è scappato di mano e di mente l’intreccio; è sorpreso come accade ai troppo giovani che ancora credono a babbo natale (cui continuano a scrivere).
Purtroppo non è consapevole, come invece succede ai più che, passata una certa età, alle favole al telefono non credono più.

mercoledì 13 ottobre 2010

- Be’, Morana: questa è la volta di far vedere come si compie il proprio dovere.
Senza lasciare con gli occhi gli occhi del superiore, il soldato rispose:
- Signor tenente, io non ci vado.
Alla prima, Alfani credette d’aver frainteso.
- Cos’hai detto?
Livido, Morana rispose, più forte:
- Signor tenente, io non ci vado.
Invaso da un immenso stupore, l’ufficiale volse lo sguardo agli astanti.
Taciti immobili agghiacciati, evitavano tutti di guardare il loro comandante, evitavano di guardarsi tra loro. L’orrore di ciò che avevano visto era superato dal terrore di ciò che udivano, da quel rifiuto d’obbedienza freddo, risoluto, premeditato.
[F. De Roberto, La paura, Edizioni e/o 1995]

In guerra, in pace, al lavoro, in famiglia: un giorno vorrei contarle tutte, le volte in cui le storie e le vite si sono decise con un rifiuto consapevole.
Cioè con l’affermazione della propria intelligenza (che diventa, tra l’altro, prova di lungimirante bontà...).

domenica 3 ottobre 2010

Spulciare la verdura

Bisognava sbrogliare, tagliare le nuvole a pezzetti, mettere ciascun filamento in un pozzetto, su una piastra. Invece di mescolare tutto alla rinfusa in un’enorme valigia impossibile da portare. Avrebbe affrontato gli ostacoli come aveva imparato lì, spalando le nuvole.
[Fred Vargas, Sotto i venti di nettuno, Einaudi 2005]

“Ti voglio un sacco di bene, ho un sacco di voglia di vederti, mi hai fatto un sacco di male”, si dice a volte. Come se fosse necessario ammucchiare per essere creduti.
Forse abbiamo imparato dal cielo che accumula nuvole per essere del tutto vero o dalla sabbia che non farebbe paura a nessuno con un granello qua e un granello là o dal mare che nessuno immagina singolare.
E anche una pagina trova senso in un libro e i chicchi diventano risotto e un chilo di zucchero è solo una somma, dolce ma una somma.
E poi ci diciamo spaventati dai problemi della vita, come se la vita stessa da sola non bastasse ad atterrire. Quando accade, possiamo sperare di uscirne solo spalando le foglie, toglierle una dopo l’altra dal mucchio che sono diventate, cadute da sole e morte insieme sul ciglio dei nostri pensieri.

domenica 26 settembre 2010

Per quanto puoi

E se non puoi avere la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto puoi: non sciuparla
nell’eccessivo commercio con la gente,
nei traffici frenetici e nelle troppe ciance.
Non sciuparla esibendola
e portandola in giro esposta
alla quotidiana insensatezza
delle relazioni e degli incontri,
fino a renderla una cosa estranea, fastidiosa.
[C. Kavafis, Per quanto sta in te, in Cinquantacinque poesie, Einaudi 1979]


A volte non mi accorgo dei tornanti della vita, a volte sì. Però ci sono e me li faccio tutti.
E poi dipende da quali scarpe ho indossato e se ho cambiato le gomme della macchina e ho pensato prima di parlare e ho fatto benzina e mi sono coperta bene d’inverno e ho sorriso per prima e ho portato un cappello per il sole e riesco a dire la cosa giusta al momento giusto e ho preso un bastone da passeggio e sto zitta quando avrei voglia di parlare e ho spiccioli per il parcheggio e riesco a sembrare intelligente perché gli altri non possono fare a meno di crederlo e buongiorno la trovo bene quando io non mi trovo affatto e non ci sono i soldi per un viaggio preferibilmente senza curve su una bella strada e uccido il desiderio di uccidere qualcuno mentre questo qualcuno sta già uccidendo me.
Così per dire.

domenica 19 settembre 2010

Aspettami

Aspettami ed io tornerò,
ma aspettami con tutte le tue forze.
Aspettami quando le gialle piogge
ti ispirano tristezza,
aspettami quando infuria la tormenta,
aspettami quando c’è caldo,
quando più non si aspettano gli altri,
obliando tutto ciò che accadde ieri.
Aspettami quando da luoghi lontani
non giungeranno mie lettere,
aspettami quando ne avranno abbastanza
tutti quelli che aspettano con te.
(K.M. Simonov)


Il tempo fugge, si dice, invecchia in fretta e noi con lui.
Era Natale, è già Ferragosto, tra poco di nuovo Natale.
In mezzo le inezie, le baruffe, le ansie.
Ma il tempo è intorno, mai in mezzo (non si dice, chissà perché, tra il dire e il fare c’è di mezzo il tempo: o forse mare è il nome del tempo quando, raramente, si può vedere e toccare).
Il tempo non dice e non fa, aspetta.
Lo immagino seduto a bere un bicchiere alla nostra salute e ad aspettare che ci passino i brufoli.

sabato 11 settembre 2010

Ciao

A chi va e a chi viene.

A chi non tornerà più, ma ci ha lasciato i ricordi di un cortile di fiori e di carbone.

A chi parte per la Spagna a cercare la sua strada (o un paio di occhiali per vederla).

A chi non arriverà, come succede quando si crede di essere ormai grandi.

A chi non ringrazia, perché si perde il meglio.

A chi non sa fermarsi e così non conoscerà mai i finali delle storie.

A chi vuole solo comandare (ma poi forse se sta male rinsavisce).

All’estate, che ha più certezze di noi di tornare.

All’inverno che è freddo solo perché non ci copriamo abbastanza.

A chi porta pazienza, perché intanto la pazienza gli dilata il tempo.

Al nuovo anno, anche se ci hanno insegnato a non parlare con gli sconosciuti.

A chi a volte ritorna, come me.

venerdì 9 aprile 2010

Buone maniere

Insieme al caffè si offrono, di solito, cioccolatini, caramelle, dolcetti. I tovaglioli sono consigliabili, anche se non indispensabili. Quello che è indispensabile è il cucchiaino, che a volte la cameriera dimentica [...]
[Il galateo di Brunella Gasperini, Sonzogno Editore 1988]


Leggo che alcuni bar nel loro tariffario applicano già un supplemento per il latte del caffè macchiato. Molti altri esercenti sembrano intenzionati a seguire le orme dei pionieri della maggiorazione facile.
L’elenco degli arrotondamenti è presto fatto, dicono i giornali. Il limoncello non richiesto servito a fine pasto, la maionese e il ketchup nei fast food, l’informazione turistica alle edicole: sono solo qualche esempio di una nuova filosofia di vita, prima ancora che di una sfacciata ingordigia commerciale.
Quando si acquista qualcosa è questo qualcosa che si paga: se si vuole aggiungere qualcos’altro, si paga anche questo altro.
L’altro è sempre un’aggiunta a ciò che siamo e abbiamo e ha sempre un prezzo che paghiamo regolarmente, come dovremmo sapere in questi tempi generosi e aperti: nel condominio è approdato da poco un altro inquilino che cucina solo cose puzzose e i nuovi arrivati nella compagnia di nostro figlio sono giovanotti foresti, ma poi...anche un’altra fetta di torta ci potrebbe costare un’indigestione.
E allora? C’è poco da indignarsi per il pagamento degli accessori del benessere e dello sfizio.
Penso che papà la pensi così, senza avermelo mai detto.
Ancora l’altro giorno, al cassiere un po' stupito di un bar ha elencato con precisione le consumazioni di tutti e ha sottolineato con un certo orgoglio che poi, dopo tutto il resto, sì, c’erano anche due caffè, macchiati però, sa, noi l’abbiamo preso macchiato. In quel momento era bello sentirlo denunciare l’acqua frizzante, il the con il limone, il cappuccino con una spruzzata di cacao e l’orzo in tazza grande. È stato un pomeriggio di optional, in cui l’occasione l’ha fatto sentire un mecenate della frivolezza complementare, che quasi mai nella vita si è concesso e che naturalmente era pronto a pagare.
Altra generazione, certo, temprata agli usi della necessità, capace di sottrarsi ai lussi delle patatine con il calice di vino, che un tempo era solo un bianchino (a proposito, il nonno lo beveva spruzzato dei liquori più inverosimili – chissà quanto e se pagava il supplemento - e sembrava proprio gustarsela questa civiltà ripiena di superfluo).
Anch’io l’estate scorsa sono stata garbata e rispettosa del nuovo che avanza. A Roma a un chiosco a ridosso dei Fori Imperiali, ho chiesto una mezza minerale liscia, ma con vista sulla spianata dei Fori. Cortese, il barista mi ha porto uno scontrino di quattro euro.

P.S. Qualcuno dirà: ma con tutto questo tempo di silenzio, e gli avvenimenti importanti, Pasqua o le elezioni, tanto per dire, questa ritorna con ‘ste scemenze? Va bene, dai, per la Pasqua confido... che ritorni l’anno prossimo e per il resto...spero non ritorni allo stesso modo. D’altro canto, donna di periferie mentali sono...

domenica 14 marzo 2010

Immunità quotidiana

Oggi poi abbiamo un’autentica iattura: abbiamo raggiunto la democrazia economica prima della democrazia politica, per cui un uomo ignorante che ha i quattrini si sente svincolato delle regole valide per tutti gli altri e pensa: ho l’azienda, devo lavorare, ho i mezzi, faccio quello che voglio.
(M. Ovadia)

...Vennero a prendere i comunisti, io non ero comunista, che mi importava?
Vennero a prendere gli ammalati, io ero sano, che mi importava?
Vennero a prendere gli ebrei, vennero a prendere gli zingari,
e un giorno vennero a prendere me, non era rimasto nessuno...
(D. Bonhoffer)

Questa forse è una lista.

Chi arriva in ritardo ma i suoi studenti o dipendenti no, come si permettono?

Chi i termini di una scadenza, dai si può fare uno strappo: mi conosci, lo sai, chiudiamo un occhio, che dici?

Chi non mette la freccia e poi svolta a destra e, insomma, queste bici ti spuntano dappertutto.

Chi in bici va contromano o in mezzo alla strada, io sì che non inquino, automobilisti del cavolo.

Chi, va beh, che sarà mai buttare nell’umido il cellophane dell’insalata, secondo me non si accorge nessuno.

Chi, signora solo perché ha due bambini e anch’io ho un cuore, ma non potrei proprio, il regolamento parla chiaro.

Chi attraversa lì, proprio a cinque metri dalle strisce pedonali che non le potevano mettere più comode per me che sono vecchio?

Chi come faccio alla fine dell’anno se non copio le versioni?

Chi trasecola stupito quando la cassiera gli dice dieci pezzi prego, ma che sarà mai, quante storie.

E alla fine questa è anche un po' rabbia.

mercoledì 10 febbraio 2010

Due angeli

A prima vista apparve poco chiaro perché Dio abbia creato la dimenticanza.
Ma il significato è questo: se non ci fosse la dimenticanza, l’uomo penserebbe continuamente alla propria morte e non costruirebbe case e non intraprenderebbe nulla. Perciò Dio ha posto negli uomini la dimenticanza.
Perciò un angelo è incaricato di insegnare al bambino così che non dimentichi nulla, e un altro angelo è incaricato di battergli sulla bocca perché dimentichi quello che ha imparato.
[Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Guanda 1992]

Ho salito milioni di scale in questi ultimi tempi.
Se Montale non mi avesse bruciato l’idea giuro che ci avrei scritto una poesia, sulle scale, la solitudine, le borse della spesa di pensieri, il fiato corto e tutto il resto.
Che mi resta, allora?
I piedi forse, senza i quali non salgo e non scendo, e gli occhi non di chi mi accompagna, ma di chi incontro.
Pezzi di corpo, quindi, estremi e periferici come gli occhi e i piedi, a disposizione delle parti nobili, chiamate magari desideri, affetti, lavoro.
Sono salita portando pacchi di vita precedente che non potevo abbandonare, comunicazioni necessarie e urgenti e speranze indispensabili di trovare una malattia un po’ meno malata.
Le discese sono state leggere, senza i carichi dell’andata, tutti appoggiati sulle guance dove avevo depositato un bacio o sui pavimenti coperti dalla polvere del nuovo, qualche volta congedati con le parole giuste.
Mi piacciono i piedi rallentati dalla fatica della salita e dalla memoria di ciò che si deve fare una volta là su e amo i passi veloci della discesa che hanno lo sguardo lieve, qualche volta anche brutalmente svuotato ma pur sempre leggero, che si ha solo quando si sente che si sta godendo un lusso prezioso, magari solo per il tempo di qualche rampa di scale: il dovere è stato depositato e c’è uno spazio saputo per ascoltare gli sguardi di chi quelle stesse scale sta salendo a sua volta.

lunedì 1 febbraio 2010

Ieri oggi domani e anche dopo, cioè sempre

- Be’, sa le anitre che ci nuotano dentro? In primavera eccetera eccetera? Che per caso sa dove vanno d’inverno?
- Dove vanno chi?
- Le anitre. Lei lo sa, per caso? Voglio dire, vanno a prenderle con un camion o vattelapesca e le portano via, oppure volano via da sole, verso sud o vattelappesca?
[J.D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi 1996]

Dove se n’è andato Elmer
Che di febbre si lasciò morire,
dov’è Herman bruciato in miniera.
E cosa ne sarà di Charley
Che cadde mentre lavorava
E dal ponte volò e volò sulla strada
[F. De Andrè, La collina]

Il sacro vive delle repliche di una epifania.
Il quotidiano sopravvive per il desiderio replicato di una risposta.
In nessuno dei due casi qualcuno impara o sa.