giovedì 31 dicembre 2009

Questa non è una lista

Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.
[Luca 2,51]

La leggerezza felice della sera del 14 gennaio.
Il dolore incredulo e paralizzante di due giorni dopo.
Il sorriso di Alice, il 15 di febbraio.
La scoperta e la marcia forzata delle settimane successive.
L’afa del 2 marzo.
La rosa nel secchio dell’ultimo giorno del mese.
Le scale dei sabati di aprile.
Pasqua di Resurrezione.
La prima notte del primo maggio.
Le scatole piene e rotte del passato e del lavoro.
La luce nuova di giugno.
La guarnizione più lungha del mondo.
La notte del 10 luglio e la gioia nei passi del 12.
La mattina buia del 13.
La rabbia stanca di Ferragosto.
Le foglie dei platani, una treccia d’aglio e una bottiglia di Falanghina che si può bere solo lì.
Lo schifo del 2 settembre.
La sorsata di bene del 9.
Le passeggiate in bicicletta come in un’ottobrata romana.
I silenzi protettivi del mio amore.
Il buio di novembre nel cuore e nei pensieri sul futuro.
La stima e la fiducia dei compagni di viaggio.
In cucina, la sera infinita e sfinita dell’11 dicembre.
Il natale del 22 dicembre (che poi era già il 23).
L’onda che si spegne non è meno salata di quella che arriva e l’ultima neve non è più bianca di quella che l’ha preceduta, perché anche il mare e la neve sono nomi plurali che proteggono nella propria ombra il bene e il male di sé (come tutti, in verità).
Non butto nulla, non tengo nulla.
Se si può invecchiare ringiovanendo, si può custodire facendo spazio.
Buona raccolta di nuovi giorni.

domenica 13 dicembre 2009

La finestra sul cortile

In russo mentire non significa esattamente ingannare, ma dire cose superflue.
[A. Anedda, La luce delle cose, Feltrinelli 2000]

“Trenta dì conta novembre con april, giugno e settembre, di ventotto ce n’è uno, tutti gli altri ne han trentuno”. Così un tempo, la filastrocca aiutava i più competitivi a concludere che per sette a cinque vincono i mesi con trentuno giorni. I lenti e riflessivi invece ragionavano sul fatto che, a parità numerica di giorni, dicembre è il peggiore perché, pur di non finire, gioca ad allungare la sua lungaggine e allargare le sue giornate fino a stipare i suoi minuti con tutte quelle attese e aspettative, desideri e auguri, brindisi e pranzi, baci e abbracci che non sapresti davvero dove mettere in un mese qualsiasi.
Insomma, dicembre è un superlativo assoluto, il mese dei mesi che non può accettare di regalare giornate normali: vuote o infelici, silenziose o malate.
Dicembre si è persino regalato un calendario tutto suo, quel calendario dell’avvento con tanto di finestre che i più piccoli cominciano ad aprire dal primo giorno del mese.
“Ehilà… sono un mese condominio – sembra gridarci – non ve ne siete accorti? E abitato solo da belle persone, sia ben chiaro. Guardate infatti le mie finestre: disegni colorati che evocano bontà e dolcezza! Se poi avete qualche spicciolo in più potrete anche gustarlo il sapore dei miei giorni: comprate un calendario più ricco e ogni finestrella sarà allietata dalla nascita di un cioccolatino…”.
Un mese pieno di sé, si può ben dire, anche se ci lascia aprire le sue finestre...
Eppure questa faccenda è piuttosto intrigante.
Che sia dicembre l’inventore delle finestre? E quindi anche dell’idea di poter guardare e immaginare dentro e fuori, di avere occhi come abiti, da fuori e da dentro?
Se mi chiedessero di imparare di nuovo i nomi dei mesi tralasciando il superfluo (incredibile dictu, qualcuno teorizza l'esistenza e la superiorità del sapere necessario...), farei a meno volentieri di dicembre, non ho dubbi.
Mi terrei le sue finestre, però.
Così, tanto per usarle all’occorrenza nell'afa di luglio o nel gelo di gennaio, quando le storie degli altri poveri mariaegiuseppe, dentro, fuori e intorno a noi, non riusciamo e non vogliamo vederle proprio mai.

martedì 1 dicembre 2009

Basta una foglia

Parla –
ma non distinguere il sì e il no.
Dona al tuo parlare anche il senso:
donagli ombra.
(Paul Celan)

Da oggi pizza, grida uno striscione pubblicitario davanti a un ristorante.
La prima volta in cui ho visto l’insegna ho pensato che l’annuncio segnasse la data in cui anche la ristorazione più raffinata si apriva a un pasto giovane e alla portata di tutti. Dopo qualche giorno quel da oggi campeggiava ancora sullo stesso striscione che sovrastava lo stesso ristorante. Dopo sei mesi nessuno l’aveva aggiornato e da oggi, dopo due anni, è ancora sempre uguale a se stesso. È sempre da oggi il giorno in cui comincia l’era della pizza.
Come a dire che non si toglie a nessuno la possibilità di credere di essere protagonisti o spettatori dell’evento che accade oggi.
Anche dai ponti di strade piccole e grandi spesso incombe un oggi sposi che rimane affacciato sulle vite degli automobilisti fino a che violente intemperie non hanno la grazia di eliminarli.
Qualche volta l’annuncio è preceduto dalla data in cui il fatto si è registrato, eppure questo non basta a togliere quell’aura di festosa attualità alla scritta. Come se tutti questi oggi fossero novelli Caronte, che diventano vecchi sempre giovani e freschi e rendono noi, al contrario, vecchi inconsapevoli che la vita può solo passare e mai fermarsi nei non luoghi dell’oggi.
Capita, allora, di esserne sopraffatti e capita ancora più spesso di sentire l’esigenza di tornare a un ritmo naturale, a un oggi che sappia di passato e pregusti il futuro.
Capita di avere voglia di silenzio. Capita che basti guardare le foglie...

domenica 1 novembre 2009

Filosofia della scala

Felice colui che non esige dalla vita più di quello che essa spontaneamente gli dà, facendosi guidare dall’istinto dei gatti che cercano il sole quando c’è il sole, e quando non c’è il sole, il caldo, ovunque esso sia.
[F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli 2003]

Qualcuno potrà crederlo, ma rassegnazione non è la parola giusta.
Verrebbe da chiamarla consapevolezza, se non fosse una parola così stropicciata.
Con un po’ di coraggio si potrebbe pensare che sia il modo di fare il sì. Potremmo decidere di inventarlo, insomma, il verbo sìare, o sìire, un verbo che coniughi tutti i modi di essere e fare sì.
Quando mio nonno mi chiedeva che cosa avrei voluto fare da grande, in genere rispondevo cose diverse in base all’umore, ma non riuscivo mai a stupirlo abbastanza se lui, senza scomporsi davanti a quella volubilità un po’ capricciosa, immancabilmente mi diceva che sarebbe stato uguale sempre: “ Tri basei, regordess”.
Non era uomo di molte parole, ma con quelle mi sembrava esagerasse.
Tre gradini? Che cosa volevano dire? Per fare che?
Immaginavo che volesse dirmi che avrei dovuto faticare un po’, (non troppo forse, perché, in fondo, tre gradini non sono una vera scala), oppure che avrei fatto carriera (una carrierina, magari: tre gradini non danno proprio la visibilità), oppure…non sapevo che altro pensare.
Gli anni sono passati senza che capissi molto di più, ma anche senza che dimenticassi i tre gradini del nonno.
Da poco mi è venuta un’idea.
Tre è il numero giusto per capire la filosofia del gradino. Del singolo gradino, del primo gradino.
All’ultimo sei arrivato ma non hai più, appunto, la possibilità di salire.
Il secondo sta lì ad aspettarti, ti offre un passaggio alla meta, ti lascia riposare, ma non può ospitarti per sempre.
Il primo è solo l’inizio del viaggio, poca roba, ma il secondo sarebbe troppo alto senza il primo e il terzo potrebbe restare un sogno irraggiungibile.
Ecco, mi piacerebbe se il nonno mi chiedesse oggi che cosa vorrei fare da grande o, più realisticamente, che cosa penso di aver fatto. Gli direi che ho cercato di fare e di essere il primo gradino, di scale mie e altrui. I miei sogni di bambina, come forse quelli di tutti gli uomini di scarsa immaginazione, alla fine erano sempre alimentati dalla filosofia della scala: diventerò grande, mi sposerò, avrò figli, farò il lavoro che ho scelto, amerò e sarò riamata.
C’era sempre e solo posto per il terzo gradino. Non ho mai pensato che in questi percorsi a tappe mi sarei fermata prima: per obbligo, per dolore, per cortesia.Per la vita, insomma.
Invece essere il primo gradino non è niente male. Anche il secondo ha le sue gioie.
Si cede il passo e si cambia prospettiva: i desideri si mescolano e capisci che i sogni non hanno padroni, sono i testimoni di una salita a staffette e a loro non importa chi li realizza, basta che un giorno il sogno di tutti sia diventato la vita di qualcuno.

sabato 10 ottobre 2009

Il sabato del villaggio 3 - applicazione

Ogni lunedì mattina, che conoscer non può chi non li prova.
Al telefono, quando il senso della vista è a riposo.
In un incontro, mentre il senso della vista è in ascolto.
Se non possiamo:
risolvere un problema,
fare ciò che vogliamo,
essere esauditi.
Se vogliamo non essere annientati
dalle lande assolate di gioia e dolore.
Per ricordare che la vita si salva con l’ombra del sabato del nostro villaggio.

mercoledì 16 settembre 2009

Il sabato del villaggio 2 - declinazione

E’ una domenica mattina quando gli altri dormono ancora
O quando si cammina adagio per l’anima zoppa
Davanti al mare
Con il ricordo di una sala d’aspetto
Dove avanza il tempo che sempre manca.

È piegato nella manica di una camicia stirata
In cerca di pace
Dopo la bufera dell’insofferenza
Quando si torna alle usate cose
In una casa che finalmente si ama

domenica 6 settembre 2009

Il sabato del villaggio 1 - definizione-

Audi et alteram partem.

Vale a dire “ascolta anche l’altra campana”, credi alla vista di un fiore che cammina, non dimenticare di essere Maria dopo sei giorni in cui sei stata sempre Marta.

È l’ombra che la settimana ha calpestato, il silenzio inascoltato e il dubbio soppresso all’alba di una decisione.

martedì 7 luglio 2009

Buon compleanno

Ormai vedo molto raramente il mio cane nero non mio.
Musonero è stato per due anni l’appuntamento di ogni mattina, ma oggi percorro altre strade e lo vedrò sempre meno. Arriverà un giorno in cui lo immaginerò e basta. Un cane invisibile che solo altri potranno vedere.
I traslochi servono anche a questo, a rinnovare il guardaroba delle nostalgie e dare agli occhi altre opportunità.
Comunque ultimamente aveva cambiato un po’ posizione, non si metteva più davanti alla porta d’ingresso della casa come avevo già raccontato; la sua ciotola l’aspettava all’ombra del pollaio oppure, se il sole aveva camminato veloce, sdraiato in un angolo della casa ai piedi della rosa e della rastrelliera delle biciclette.
Musonero cambia posto ma non obiettivo. Come a dire: senti un po’, sai bene che devo mangiare, che ho fame, ma non posso stare ad aspettare proprio i tuoi comodi e intanto bruciare al sole o inzupparmi di pioggia se tu ritardi. Io aspetto ma mi guardo intorno, mi proteggo un po’, finché ti decidi a uscire per me.
Forse si può provare a essere come lui aspettando le mani piene del padrone.
Il cibo non è più un desiderio. Mangiare è uno scopo e si mette nella posizione migliore per riceverlo. Il desiderio rende vulnerabili e ti sfinisce, avrà pensato, ti fa stare in piedi teso e proteso verso qualcosa che ti fa dimenticare anche del tuo male di zampe e della tua gola riarsa. E invece è bene avere un obiettivo senza desiderarlo, non troppo almeno: puoi permetterti il lusso di essere tenace nella pazienza e non nella brama, e forse impari a non ingozzarti ma a spiluccare, i pensieri di prima e le cose di dopo. E intanto scegli ciò che è meglio per te durante l’attesa. Poi magari scopri che l’obiettivo raggiunto coincide con il desiderio coltivato e puoi anche gioire della sorpresa. Due felicità al posto di una (possibile) delusione. Sembra un buon affare.
Buon compleanno così, allora.

martedì 23 giugno 2009

Artigianato

Ho sbucciato il cuore mio e l’altrui
in cerca di carni tenere e bianche

Ho trovato solo pastelli colorati
e bambini senza mani per usarli

I vecchi sapevano e non parlavano
per terra resti di anni avanzati.

sabato 4 aprile 2009

Outing

Caro ministro Brunetta,
come donna statale (non pubblica però perché, certo, lei capirà, non è proprio lo stesso) dipendente di quel ministero femminilizzato che lei chiama “ammortizzatore sociale”, con un sussulto di orgoglio e finalmente sollevata dalla vergogna della colpa grazie alla sua imperiosa opera di moralizzazione, mi sento in dovere di confessare le negligenze in cui mi crogiolo da anni e che hanno portato danno e detrimento alle finanze italiane.
Dunque ammetto:
- di avere sfogliato un giornale o letto libri durante le ore di compito in classe;
- di avere interrotto la correzione dei compiti per organizzare la cena;
- di avere permesso ad amici e parenti di disturbare la preparazione delle lezioni la sera con telefonate o visite non annunciate;
- di avere condiviso con il marito l’uso del computer di famiglia che mi serve per la preparazione di compiti e materiali di supporto alla didattica;
- di aver concesso possibilità di colloquio a studenti e genitori ogni volta che l’abbiano richiesto e non nella sola ora settimanale convenuta (aggirando così i regolamenti interni);
- di essermi presa delle pause pranzo di dieci minuti (quando in effetti per mangiare una banana ne basterebbero meno della metà);
- di avere sognato qualche domenica libera dai compiti da correggere senza capire l’importanza della formazione permanente;
- di aver accompagnato a mie spese gli studenti a teatri e musei (a conferma del carattere part-time del mio lavoro che mi permette di assistere agli spettacoli di pomeriggio quando tutti sono impegnati a lavorare seriamente);
- di avere raccontato favole ai miei bambini la sera tardi, quando avrei dovuto approfittare per studiare e migliorare il mio insegnamento;
- di avere desiderato le vacanze (tutte, ma proprio tutte, natalizie, pasquali, estive).
Confidando nella clemenza che l’ammissione della colpa ha sempre prodotto sin dai tempi dell’Inquisizione, voglia gradire i miei più sofferenti e pentiti saluti.

venerdì 20 marzo 2009

Domani

...oggi non è che il ricordo di ieri e domani non è che il sogno di oggi…
[Gibran Kahlil Gibran, Il Profeta, Guanda 1986]

Il futuro non è neutrale come la Svizzera.
Però il futuro è un orologio e la Svizzera gli somiglia.
Quando lo guardiamo, abbiamo solo desideri di momenti migliori o paure di tempi peggiori, dimenticandoci che il futuro abitava già nel nostro passato coloniale.

sabato 28 febbraio 2009

Chiedo scusa, è per me...

Le pugnalate più profonde arrivano
quando il mondo sembra più soffice.

[Alberto Casiraghy, Distrazioni e giraffe. Aforismi e riflessioni sul tempo che corre, Hestia Edizioni 1996]

«Perché non sorridi mai, Momo?» mi domandò monsieur Ibrahim.
[…]
«Sorridere è roba da gente ricca, monsieur Ibrahim. Io non ho i mezzi».
Naturalmente lui cominciò a sorridere, tanto per farmi girare le scatole.
«Perché, tu credi che io sia ricco?».

[E.E. Schmitt, Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, e/o 2006]

Compito per la settimana:
costruire giorni di senso compiuto
con i verbi lasciare, attraversare, restituire.

venerdì 20 febbraio 2009

Direfarebaciareletteratestamento

C’è una soglia segreta di pazienza passata la quale ci si oppone di colpo alla disciplina quotidiana.
[Erri De Luca, In alto a sinistra, Feltrinelli 1994]

Dal finestrino abbassato di una piccola utilitaria incolonnata, come centinaia di altre, alle otto del mattino su una strada di città, escono come proiettili resti di mandarino.
Una mitragliata di bucce e semi che, a ripetizione e a intervalli regolari, planano sull’asfalto, segnando il passaggio di una macchina-pollicino bisognosa di una scia da seguire per un sicuro ritorno serale.
Però il pensiero della favola è tramontato quando una manciata di scorze arancioni ha colpito un motociclista che sopraggiungeva e superava la vettura. Imprecazioni e insulti reciproci. D’altro canto non sono questi i tempi della poesia e delle favole, quanto piuttosto di case e di popoli delle libertà.
Perché non dunque di strade delle libertà?
Forse ho capito. Mentre qualcuno continuava a ripetere si può fare, qualcun altro faceva e diceva fate, fate pure ciò che volete, dove vi pare e quando vi pare.
Dal che si deduce che nel paese delle libertà ci sono piccole verità: mors tua vita mea, nel paese dei ciechi anche un guercio è re, meglio una gallina oggi di un piatto di pasta all’uovo domani.

giovedì 12 febbraio 2009

Ciao E.

La sfida tecnologica a prolungare la vita ha gradualmente avuto la meglio sulla qualità della vita vissuta. Processi pericolosi e insidiosi ci hanno fatto perdere di vista fino a che punto il nostro modo di vivere sia più importante del momento in cui moriamo. 
[…] L’arroganza della medicina scientifica alimenta crescenti aspettative pubbliche di perfetta salute e tenace longevità e questi processi sono sfruttati con avidità da giornalisti e uomini politici e, soprattutto, dall’industria farmaceutica.
[Iona Heath, Modi di morire, Bollati Boringhieri 2008]

Appena qualche attimo prima di morire, appoggiata al nocciòlo del giardino, l’Annina emerse dall’ombra in cui la sua mente si era nascosta da molti anni e all’improvviso, in quei brevi istanti che la morte ancora le concesse, […] l’Annina ricordava con chiarezza di avere vissuto.
[Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, Mondadori 2005]

Più che la storia di una povera figlia, questa è la storia di due padri.
Procreare e accudire figli bambini, questo hanno avuto in comune. Poi basta, le loro strade si sono divise. Non tanto per la politica o per il credo, quanto per l’idea stessa di paternità che hanno scelto di interpretare anno dopo anno.
E quando, un giorno, entrambi si sono chiesti a che serva un padre e quale sia il suo compito nei confronti dei figli ormai grandi, si sono risposti in maniera inconciliabile.
L’uno ha creduto che un padre è tale e lo rimane quando insegna e impone ai figli di aggrapparsi e a tutto quello che toccano: lo studio, il lavoro, l’amore, la vita. “Fai come me, figlia mia: lotta, costruisci il tuo futuro, non mollare mai. Chè la vita è tua, qualunque cosa accada. Tutto è possibile se solo lo vuoi. Vedi? Anch’io non invecchio, perché non voglio invecchiare: mi tingo, faccio diete, dico ciò che voglio senza pensarci troppo, come i giovani.
Avere, progettare e sperare di avere tutto, carriera e figli, bellezza e potere, questo devi fare figlia mia. Tuo padre è maestro, stagli vicino e non sbaglierai. Io solo, che ti ho messo al mondo e in un certo senso ti possiedo, so qual è il tuo bene”.

L’altro ritiene che il bene sia parola troppo ingombrante anche per un padre. Non si può conoscere il bene dell’altro senza sovrapporre il desiderio del proprio.
Quando le cose vanno bene, non c'è bisogno dell'ombra di chi ti ha messo al mondo. 
Invece un padre può solo dimostrare di essere tale nei momenti difficili, quelli del rifiuto e del dolore, stando magari in silenzio e cercando di ricordare le parole dette e i pensieri discretamente taciuti, aiutandoti a capire se i segnali della vita vanno nella direzione che vorremmo. 
Questo padre vorrebbe insegnarti che puoi diventare davvero grande solo se impari a lasciare più che a prendere, come sta facendo lui in questo momento. Che amare non significa trattenere a tutti i costi, perché, quasi sempre, chi pensa di lottare per qualcuno o per qualcosa, lotta solo in nome del proprio egoismo e della propria incapacità di accettare, appunto, che la vita sia solo un prestito da restituire. E così sia.

mercoledì 4 febbraio 2009

Negazionismi

Se il tempo che condiziona la vita umana scorresse senza gettare sul proprio corso l’ombra di se stesso, se non fosse curvilineo come lo è tutto su questa terra […] le immagini del passato si presenterebbero fedeli […] ma nel tempo tutto si manifesta in modo concavo o convesso, soprattutto il passato, che per essere salvato […] deve essere corretto, restituito a quello che era, e ancor di più, a quello che stava per essere.
[M. Zambrano, L’esperienza della storia, in aut aut, maggio-giugno 1997]

I pesci rossi che abitano gli acquari rotondi (le bocce, tanto per intenderci) diventano strabici per la visione deformata della realtà che il vetro incurvato produce.
L’effetto lente, insomma, ingrandisce e distorce la vista di chi sta aldilà del vetro, con gravi danni all’equilibrio di chi vede e metamorfosi spaventose di chi è visto.
Chi sta dentro pensa di vedere qualcosa che fuori è del tutto diverso da come appare a loro. E solo a loro.
Ogni tanto qualcuno libera i pesci nella speranza che la riacquistata libertà li gratifichi a tal punto che con lo strabismo possa andarsene anche l’ottusità che li ha cullati.
Ma un malato rimane un malato, non diventa mai un ex, me lo disse un giorno, con chiarezza, un medico ruvido e pietoso come i vecchi veri, quelli asciugati dai dolori propri e altrui.
E poi chi libera i pesci è spesso chi li ha voluti dentro la boccia, ha permesso che vedessero storto, che capissero niente delle cose della vita attorno.
Così, quando escono, non possono dubitare di sé e della mano che li ha nutriti, preoccupati solo di raccontarsi che le loro ragioni e il loro bene coincidono e li proteggeranno dalla verità che si mostra non più deforme per la prima volta.
Meglio negare, negare e ri-negare.
Ma questa è una storia di pesci piccoli, tanto sciocchi da scambiare il mondo tondo con la loro boccia e da confondere i nomi del bene e del male, come si fa con i fratelli gemelli.
Ancora una volta meglio il rumore del mare.

lunedì 26 gennaio 2009

Gennaio

Gennaio deve il suo nome a Giano, infida divinità pagana dalla doppia faccia, a cui fu dedicato perché conviene ingraziarsi con lusinghe chiunque abbia potere. Doveva essere molto temuto per meritare il primo mese del calendario. Non perciò il dio cambiò carattere e gennaio resta il mese più freddo.
[Luigi Pintor, Il nespolo, Bollati Boringhieri 2001]

La mia amica Teresa ripensava ai suoi quaderni di bambina.
Gennaio era il mese in cui, dopo le pagelle, consegnavano le medaglie al quaderno più ordinato e meglio disegnato. Di solito vinceva senza fatica. Bella grafia, dita svelte e mente acuta facevano di lei la scolara ideale per arrivare prima, nelle soluzioni di un problema come nelle gare per bambini bravi.
In quel momento ricordava le sue pagine pulite, senza macchie o cancellature, così diverse da quelle degli altri compagni e provava ancora la sensazione piacevole di chi è in pace con se stesso, di chi ha fatto il proprio dovere.
«Mamma, come possono rovesciare sempre l’inchiostro mentre scrivono?”, si spazientiva a casa, raccontando quegli episodi che la sorprendevano sempre.
«I bambini sono un po’ distratti, a volte. Ma capita anche ai grandi. Tutti possono distrarsi. Tuo padre in ufficio dice che è abbastanza comune, sai?», rispondeva sua madre, preoccupata che l’incredulità della figlia non si trasformasse in sofferenza per sé e insofferenza per gli altri.
Ma Teresa non correva questo rischio, non ostentava bravure né si esaltava.
La bontà non ha parole né spiegazioni. La bontà è. Teresa era buona e basta. Forse l’aveva ereditato da sua madre, infermiera di cuore, prima che di mano. E infatti quella che sembrava impazienza era soprattutto dispiacere.
«Sai, ogni tanto penso alle parole coperte dal nero che si rovescia su di loro – insisteva con sua madre – e non è giusto. Con tutta la fatica che fanno, che facciamo per tirarle fuori, per farle capire agli altri…poi è come se annegassero. Rimane la macchia nera e qualche pezzo di a, di f, di t. Ma non si capisce più niente. La frase si rompe. Sì, magari riscrivi, però su un altro foglio. E non è più come prima. E se fossi anch’io una lettera dell’alfabeto, mamma? Ci pensi? E se mi raggiunge una macchia nera? Che cosa faccio? Cosa divento, come sto?».
Sua madre la guardava in silenzio.
«Ma come si sta in una macchia, secondo te? Si può ancora respirare dentro una macchia nera?», incalzava indomita.
Oggi Teresa ripensava alle macchie buie che paralizzano la vita delle parole e che schiacciano i pensieri. Sua madre accanto che le teneva la mano.
Non riusciva neanche a piangere il suo uomo, così per sempre fermo davanti a lei.
Ripensava solo ai quaderni, ai gennaio di un tempo, alle macchie che erano state e alla pozza di nero che le aveva allagato l'amore. Si poteva intravedere a mala pena solo la a.
Troppo poco per essere ancora una parola. Quasi nulla per tornare a essere vita. Abbastanza per una risposta, solo ora, alle domande di un tempo.

martedì 20 gennaio 2009

Bugie

Esagerúma nenta! («Non esageriamo!»)
Un detto del Monferrato ricordato da N. Bobbio ed E. Bianchi

Che bel bambino
I bambini sono tutti uguali

Sei uno splendore
Ti trovo assolutamente in forma

Ci sentiamo presto
Rivediamoci, dai

Carissimo
E’ stato un immenso piacere

Ho fatto tutti i compiti
Ho quasi finito

Che bella casa
La tua cucina è squisita

Ci penso io
Non c’è problema

Le sta divinamente
È davvero un’occasione

Torno presto
Non ho fatto tardi

Farà la vita di sempre
Sarà come prima, vedrai

Sei sempre bella
Ti amo (se non lo è lo diventa)

Dio vede e provvede.








lunedì 12 gennaio 2009

Moschiese

Ai cristiani, ai musulmani e ai laici di buona volontà la storia fornisce il modello di tempi nei quali la convivenza era non solo possibile, ma franca e cordiale: dall’impero mongolo alla Spagna due-quattrocentesca al sultano moghul di al-Akbar in India. Ma i modelli storici restano lettera morta, se non si afferma la volontà di seguirne i suggerimenti, di far vivere il seme che essi hanno piantato affinché fruttificasse.
[Franco Cardini, dalla postfazione di M. Jevolella, Non nominare il nome di Allah invano, Il Corano libro di pace, Boroli Editore 2004]

Amleto, forse lei se lo ricorda, era persuaso della vanità delle «parole» che non coinvolgessero tutte le persone. Il mio parroco si è lamentato con la mia figliola di dire cose non molto diverse da quelle che dico io; ma che nessuno lo ascoltava come invece ascoltano me. 
Aspetto l’occasione per dirgli: caro monsignore, «si duo dicunt idem non est idem».
La Chiesa ha sempre trascurato il problema della predicazione creando addirittura dei retori di mestiere capaci di rendere falso lo stesso Vangelo.
Questo è uno dei problemi fondamentali del falso di tutte le società che credono di poter investire di funzioni sacrali o comunque di comando o di educazione uomini assolutamente insufficienti.
(Biagio Marin, Fame di Dio, Lettere e ricordi, La Locusta)

Quando negli anni Settanta gruppi di studenti cattolici di tutta Italia chiedevano nelle scuole superiori statali uno spazio per pregare prima dell’inizio delle lezioni e un po’ ovunque il laboratorio di chimica, l’aula del ricevimento parenti, l’auditorium o la palestra diventavano chiese per caso e per poco, nessuno lo impedì.
Ci furono dibattiti, certo, ma quegli spazi pubblici diventarono dappertutto santuari a tempo dove risuonavano salmi e brani di vangelo.
Quando, a partire dagli stessi anni, uomini e donne testimoni di Geova suonavano ai citofoni di privati cittadini, gli interpellati dalle loro case rispondevano in malo modo e spesso li insultavano per averli disturbati magari in una tranquilla domenica mattina in famiglia.
Oggi continuano ad accadere entrambe le cose. E spesso chi fa l’una pratica con convinzione anche l’altra.
Oggi poi accade, sempre più spesso, che donne e uomini famosi si dichiarino buddisti e siano amati e vezzeggiati anche per questo.
Oggi però altri cercano un luogo dove pregare e non lo ottengono. A volte lo fanno sui marciapiedi, luoghi appunto deputati ai piedi che marciano velocemente verso gli eccessi quotidiani e quindi mal sopportano le ginocchia ferme di chi si china davanti al suo dio. Qualche volta le piazze pubbliche si riempiono dei senza casa, la propria o del proprio dio, ma di solito si tolgono panchine agli uni e si chiedono scuse agli altri.
Si può fare di meglio, coraggio.
Aspettiamo citofoni predisposti solo per risposte cortesi e moschiese dove dio si chiama solo dio e i suoi fedeli tutti e solo “noi”.

giovedì 1 gennaio 2009

Avvento

“Prof…”
“Dimmi”
“Posso usare avvenente per dire che sta per arrivare?

E un cane, sdraiato là, rizzò muso e orecchie, […]
là giaceva il cane Argo, pieno di zecche.
E allora, come sentì vicino Odisseo,
mosse la coda, abbassò le due orecchie,
ma non poté correre incontro al padrone.
E il padrone voltandosi, si terse una lacrima
[…]
[Omero, Odissea, libro XVII, vv. 291-304, versione di R. Calzecchi-Onesti, Einaudi 1981]

Poi chi stava per venire è arrivato: il Natale, un affetto lontano, l’anno nuovo.
Ma l’arrivo non esaurisce l’attesa, se possibile anzi la nutre e l’accresce perché ogni attesa risolta chiude un tempo conosciuto e apre uno spazio aperto all’immaginazione e al desiderio di futuro.
Ho capito – forse – l’attesa solo da poco, da quando vedo Musonero aspettare ogni mattina il suo padrone sull’ultimo gradino della piccola scala che conduce alla porta d’ingresso di una villetta a bordo strada.
Musonero non sa che lo chiamo così, non mi ha neanche mai visto quel cane color temporale.
Ogni mattina, a giorno appena fatto, passo in macchina davanti al cancello della casa che abita con i suoi umani e lo trovo sempre lì, nella stessa posizione: la figura protesa come verso una meta, le zampe posteriori leggermente oblique pronte a sostenere lo scatto in avanti che sembra sul punto di esplodere, il muso affilato, più nero del nero del corpo, in grado di annusare il momento in cui qualcuno aprirà la porta.
Ogni mattina, con ogni tempo la solita scena: porta chiusa, Musonero fermo, stirato dallo schiacciassi dell’attesa come un solido che abbia perso o dimenticato il volume del movimento, il semaforo rosso e io che mi chiedo che cosa esattamente aspetti. Il cibo, un po’ di tepore, la prima carezza, una voce conosciuta?
Tutto questo magari, ma non sono mai riuscita ad appurarlo. Passo oltre prima che la porta si apra mai.
Mi rimane solo l’immagine della sua attesa, che è più intensa e acuta di qualunque risposta gli possa venire data. Se anche solo aspettasse cibo, la sua attesa è più affamata della scodella che riceve; se attendesse mani carezzevoli, il suo mantello è troppo grande rispetto alle tenerezze che potrebbero arrivare; il calore di una casa non potrebbe sconfiggere il ricordo del freddo della notte.
Ma Musonero, giorno dopo giorno non rinuncia ad aspettare e ad avere fiducia che la porta si aprirà. Eppure non è un cane giovane, potrebbe sapere come va la vita, che le attese non le risparmia ma a volte le delude. E poi è forte e se fosse libero saprebbe farsi valere e potrebbe vivere da cacciatore. Invece aspetta. Nelle sue giornate ci sono così tanti momenti deputati all’attesa, che, sommati, faranno almeno mezza vita.
Vorrei essere Musonero oggi, davanti alla porta del nuovo anno, come lo sono ogni volta che aspetto il ritorno del mio amore a casa la sera.
Chi mi vede può anche non sapere che cosa aspetto, basta che capisca che ho ancora voglia della ciotola del futuro e sto imparando ad aspettare.