La bellezza cangiante
Traduzione da Hopkins
Gloria a Dio per le cose che ha spruzzate:
i cieli bicolori, pezzati come vacche,
la striscia roseo-biliottata della
trota in acqua, il tonfar delle castagne
-crollo di tizzi giovani nel fuoco-
e l’ali del fringuello; per le toppe
dei campi arati e dissodati, e tutti
i traffici e gli arnesi, e tutto ch’è
fuor di squadra, difforme, impari e strambo,
tutto che muta, punto da lentiggini
(chissà come?) di fretta o di lentezza,
di dolce o d’aspro, di lucore o buio.
Quegli le esprime – lode a Lui – ch’è sola bellezza non mutabile.
[Eugenio Montale, Quaderno di traduzioni, Mondadori 1977]
Il segreto della storia è questo, allora.
Gloria e grazie al Dio bambino, perché ci ha scoperto plurali e ogni anno tenta di ricordarci che possiamo farcela… a vedere almeno doppio. Se proprio non possiamo multiplo.
In fondo, ci ha dato l’esempio: Dio e uomo, Figlio e Creatore, Bambino e Maestro.
Possiamo farcela, coraggio.
Ogni giorno un po’ d’esercizio.
Grazie ai giovani perché lo siamo stati. E grazie ai vecchi perché potremmo esserlo.
Grazie ai miti perché vorremmo imitarli. E grazie ai prepotenti perché non vogliamo diventarlo.
Grazie alla malattia che rallenta il tempo. E grazie alla salute perché lo accelera.
Grazie ai no che riceviamo, perché forse pronunceremo meglio i sì.
Grazie alla vita che non è perfetta e sul più bello finisce, ma, appunto, sul più bello.
Grazie a Dio che è anche uomo. E grazie a noi che crediamo che lo sia.
Grazie al Natale che è la festa della veglia: non solo dì, non sola notte.
E ogni giorno ritorna con i suoi grazie, ma anche no.
Ogni giorno un po’ di esercizio che si chiama Natale.
Buona, bella fatica a tutti!
"fabbricare, fabbricare, fabbricare / preferisco il rumore del mare / che dice fabbricare fare e disfare / fare e disfare è tutto un lavorare / ecco quello che so fare. scrivete. addio" (D. Campana, Cartolina postale del 13 ottobre 1916, in S. Aleramo, D. Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, Feltrinelli, Milano 2000, p. 72)
lunedì 24 dicembre 2007
martedì 11 dicembre 2007
DUE
[…] crediamo nel Natale come in ogni cosa in cui credono gli uomini, come crediamo nell’estate e nell’inverno, nel mattino, nel pomeriggio e nella sera […] Il Natale è l’unico giorno che gli uomini di buona volontà hanno in comune con gli uomini di cattiva volontà. E avere pace e comunione, per un giorno, anche con le più nere carogne della società umana significa credere in un tempo in cui vi sarà comunione senza che più vi siano carogne.
[Elio Vittorini, Diario in pubblico, Bompiani 1976]
La storia finisce un po’ male.
Gesù nasce, ma poi muore. E muore tragicamente e drammaticamente isolato e solo.
Come del resto era nato altrettanto solo e rifiutato. Solo la luce del cielo che l’aveva voluto si era accorta della sua voglia di vivere, della donna senza la quale sarebbe stato solo dio, dell’uomo che li ha protetti e ha vegliato su quella pancia di terra e spirito che era cresciuta sotto gli occhi di tutti senza che nessuno vedesse.
Anche alla fine il cielo si è accorto di lui e ha soffocato nel buio le lacrime di una madre che aveva perso ciò che non aveva mai avuto e la ribellione di un figlio che avrebbe potuto non esserlo.
Ma questa è la fine, e noi siamo solo all’inizio.
E all’inizio la storia sorride e ci appassiona perché, contro tutto e tutti, grandi cose promette il prodigio dell’amore assoluto che la madre, il figlio e il padre custode incarnano.
E vissero felici e contenti vorremmo pensare la sera di ogni natale. Come accade nelle favole belle, ci aspettiamo che cali il sipario e vivano la loro vita, per la quale ci sembra abbiano già faticato tanto, e la famiglia cresca come vorremmo crescessero le nostre, con i figli, qualche acciacco o litigio e i dolori, sì ma il giusto, che tocchi un po’ a tutti. E poi la vecchiaia, va bene, ma con i nipoti e una morte un po’ finta e la sopravvivenza assicurata dalle generazioni che abbiamo contribuito a far nascere.
Saremmo tutti più al sicuro delle nostre certezze se questa famiglia somigliasse all’idea che noi abbiamo delle nostre. Chissà dove abbiamo raccolto tante aspettative, chissà perché coltiviamo frustrazioni.
Basterebbe vedere che nulla vi è di rassicurante a Betlemme. Il nostro bisogno di consolazione non abita lì.
In quella notte, è nata, in fondo, solo la comunione tra diversi. E prima inconciliabili.
continua…
[Elio Vittorini, Diario in pubblico, Bompiani 1976]
La storia finisce un po’ male.
Gesù nasce, ma poi muore. E muore tragicamente e drammaticamente isolato e solo.
Come del resto era nato altrettanto solo e rifiutato. Solo la luce del cielo che l’aveva voluto si era accorta della sua voglia di vivere, della donna senza la quale sarebbe stato solo dio, dell’uomo che li ha protetti e ha vegliato su quella pancia di terra e spirito che era cresciuta sotto gli occhi di tutti senza che nessuno vedesse.
Anche alla fine il cielo si è accorto di lui e ha soffocato nel buio le lacrime di una madre che aveva perso ciò che non aveva mai avuto e la ribellione di un figlio che avrebbe potuto non esserlo.
Ma questa è la fine, e noi siamo solo all’inizio.
E all’inizio la storia sorride e ci appassiona perché, contro tutto e tutti, grandi cose promette il prodigio dell’amore assoluto che la madre, il figlio e il padre custode incarnano.
E vissero felici e contenti vorremmo pensare la sera di ogni natale. Come accade nelle favole belle, ci aspettiamo che cali il sipario e vivano la loro vita, per la quale ci sembra abbiano già faticato tanto, e la famiglia cresca come vorremmo crescessero le nostre, con i figli, qualche acciacco o litigio e i dolori, sì ma il giusto, che tocchi un po’ a tutti. E poi la vecchiaia, va bene, ma con i nipoti e una morte un po’ finta e la sopravvivenza assicurata dalle generazioni che abbiamo contribuito a far nascere.
Saremmo tutti più al sicuro delle nostre certezze se questa famiglia somigliasse all’idea che noi abbiamo delle nostre. Chissà dove abbiamo raccolto tante aspettative, chissà perché coltiviamo frustrazioni.
Basterebbe vedere che nulla vi è di rassicurante a Betlemme. Il nostro bisogno di consolazione non abita lì.
In quella notte, è nata, in fondo, solo la comunione tra diversi. E prima inconciliabili.
continua…
mercoledì 5 dicembre 2007
UNO
PETIT NÖEL
S’avvicina il Natale.
Gesù, portami via.
La tua è la più bella bugia
che possa allettare un mortale.
[Giorgio Caproni, da Res amissa, Garzanti 1991]
Almeno adesso siamo in dicembre e si può fare il conto alla rovescia senza dover usare le mani di troppi parenti.
A ottobre è comparso il primo panettone e nessuno ancora immaginava il cappotto.
Prima di Ognissanti sugli scaffali dei supermercati si sono sdraiati frutta secca, praline e torroni.
L’undici di novembre è stato indimenticabile: almeno quattro operai armeggiavano alle luminarie di un grande centro commerciale. Il giorno dopo ho verificato: alberoni natalizi, obesi come solo il natale che il perfetto commerciante immagina, illuminavano strade ancora sufficientemente baciate dal sole.
Da allora ogni settimana un segnale in più.
Il calendario dell’avvento con le sorprese di cioccolato appeso dietro la porta d’ingresso dei vicini.
Qualche corona di vischio artificiale sui portoni di sicurezza di villette perbene, pronte ad accogliere l’unico ladro amato, il Babbo Natale avvinghiato alla grondaia.
La novità dei Babbi che neanche hanno voglia di faticare, stesi sull’amaca lasciata in giardino dall’estate, forse proprio per la ricorrenza.
Senza contare che da due mesi sento chiedere: “Che cosa compri per natale? Cosa ti metti? Dove vai a natale?”.
Insomma, natale non è più una festa è una stagione, la quinta, desiderata più delle altre quattro, ambita almeno quanto l’ altra, la sesta, aggiunta in risposta al bisogno di diversificare i consumi, il ferragosto. O forse, natale e ferragosto sono semplicemente i superlativi intimi di inverno ed estate, che volendo, ma non potendo, farsi chiamare come vorrebbero - in omaggio al freddissimo e al caldissimo che la tradizione impone loro - estatissima e invernissimo, hanno scelto per sé e di sé le parti che siano sinonimi di esagerato benessere, che facciano sentire la gente finalmente ricca di qualche cosa.
Per qualcuno, però, le tappe settimanali di avvicinamento all’evento sono una iattura, segnano l’avvicinarsi inesorabile di acquisti e pranzi, auguri e sorrisi, note a volte impietose del contratto che si sottoscrive tacitamente vivendo. Natale come una tassa, in pratica, una rata del mutuo a vita che si firma con il primo vagito. Non tutti, in effetti, hanno voglia di ricordare che si deve ancora assolvere, magari con i capelli ormai bianchi, a un debito che nel corso degli anni ci ha prosciugato le casse e i sentimenti e i cui interessi ci tramandiamo di generazione in generazione. Senza che nessuno possa ripagarli, né ricordi chi sia stato e dove sia fuggito l’usuraio che ha dato vita alla truffa di credere che le favole esistono.
continua...
S’avvicina il Natale.
Gesù, portami via.
La tua è la più bella bugia
che possa allettare un mortale.
[Giorgio Caproni, da Res amissa, Garzanti 1991]
Almeno adesso siamo in dicembre e si può fare il conto alla rovescia senza dover usare le mani di troppi parenti.
A ottobre è comparso il primo panettone e nessuno ancora immaginava il cappotto.
Prima di Ognissanti sugli scaffali dei supermercati si sono sdraiati frutta secca, praline e torroni.
L’undici di novembre è stato indimenticabile: almeno quattro operai armeggiavano alle luminarie di un grande centro commerciale. Il giorno dopo ho verificato: alberoni natalizi, obesi come solo il natale che il perfetto commerciante immagina, illuminavano strade ancora sufficientemente baciate dal sole.
Da allora ogni settimana un segnale in più.
Il calendario dell’avvento con le sorprese di cioccolato appeso dietro la porta d’ingresso dei vicini.
Qualche corona di vischio artificiale sui portoni di sicurezza di villette perbene, pronte ad accogliere l’unico ladro amato, il Babbo Natale avvinghiato alla grondaia.
La novità dei Babbi che neanche hanno voglia di faticare, stesi sull’amaca lasciata in giardino dall’estate, forse proprio per la ricorrenza.
Senza contare che da due mesi sento chiedere: “Che cosa compri per natale? Cosa ti metti? Dove vai a natale?”.
Insomma, natale non è più una festa è una stagione, la quinta, desiderata più delle altre quattro, ambita almeno quanto l’ altra, la sesta, aggiunta in risposta al bisogno di diversificare i consumi, il ferragosto. O forse, natale e ferragosto sono semplicemente i superlativi intimi di inverno ed estate, che volendo, ma non potendo, farsi chiamare come vorrebbero - in omaggio al freddissimo e al caldissimo che la tradizione impone loro - estatissima e invernissimo, hanno scelto per sé e di sé le parti che siano sinonimi di esagerato benessere, che facciano sentire la gente finalmente ricca di qualche cosa.
Per qualcuno, però, le tappe settimanali di avvicinamento all’evento sono una iattura, segnano l’avvicinarsi inesorabile di acquisti e pranzi, auguri e sorrisi, note a volte impietose del contratto che si sottoscrive tacitamente vivendo. Natale come una tassa, in pratica, una rata del mutuo a vita che si firma con il primo vagito. Non tutti, in effetti, hanno voglia di ricordare che si deve ancora assolvere, magari con i capelli ormai bianchi, a un debito che nel corso degli anni ci ha prosciugato le casse e i sentimenti e i cui interessi ci tramandiamo di generazione in generazione. Senza che nessuno possa ripagarli, né ricordi chi sia stato e dove sia fuggito l’usuraio che ha dato vita alla truffa di credere che le favole esistono.
continua...
martedì 20 novembre 2007
sterile operaia
Il dolore
È plastica nell’oceano.
È un muro portante.
Il dolore è la terra che
La stagione copre e scopre
Ma sempre rimane
Cemento o castagna
Dipende dall’occhio
Avido o generoso che la guarda.
Il dolore figlia solo padroni.
Sterile operaia la felicità
Che non arriva a fine vita.
È plastica nell’oceano.
È un muro portante.
Il dolore è la terra che
La stagione copre e scopre
Ma sempre rimane
Cemento o castagna
Dipende dall’occhio
Avido o generoso che la guarda.
Il dolore figlia solo padroni.
Sterile operaia la felicità
Che non arriva a fine vita.
martedì 6 novembre 2007
Fanatismi quotidiani
“Vorreste dirmi, Bartleby, dove siete nato?”
“Avrei preferenza di no.”
“Non vorreste dirmi nulla su di voi?”
“Avrei preferenza di no".”
“Ma quale ragionevole obbiezione può spingervi a non parlare? Io ho per voi sentimenti amichevoli.”
[…]
“Qual è la vostra risposta, Bartleby?” dissi dopo aver atteso una risposta per un buon pezzo di tempo, durante il quale il suo viso s’era mantenuto immobile, tranne per il più impercettibile tremore nelle pallide e sottili labbra.
“Al momento ho preferenza a non rispondere,” disse…
[H. Melville, Bartleby lo scrivano, Feltrinelli 1991]
In un articolo apparso qualche giorno fa sul Corriere della sera, Amos Oz ci suggeriva di leggere romanzi perché capire le ragioni di carta dei personaggi aiuta a capire le azioni e i pensieri di carne di chi ci sta attorno.
Già in un suo breve saggio (Contro il fanatismo, Feltrinelli 2004), lo stesso autore israeliano raccontava l’aneddoto dell’amico che, alle parole oltranziste e violente dell’autista che lo accompagnava e tentava di convincerlo della bontà dell’idea che ogni ebreo si incaricasse di sterminare un certo numero di arabi per risolvere il conflitto in Medio Oriente, rispondeva: "Ok, supponiamo allora che a lei venga assegnato un condominio nella sua città, Haifa, e debba bussare a ogni porta o suonare il campanello, e domandare: «Mi scusi signore, o mi scusi signora, lei è arabo?» e se la risposta è sì, allora sparare. Poi lei finisce il suo condominio, se ne sta per andare a casa, ma in quel momento sente che su al quarto piano c’è un bimbo che piange. Che fa, torna indietro e spara al bambino? Sì o no?”. E a quel punto, l’autista, dopo qualche minuto di silenzio, ribatteva: “Lo sa, lei è molto crudele”.
Se immaginare serve, magari poco ma serve, al fanatico dichiarato, a maggior ragione può aiutare coloro che tali non si sentono e spesso sono pronti a indignarsi davanti alle più diverse manifestazioni di intolleranza verso gli altri, è la considerazione conclusiva dell’autore.
Pensare che Oz abbia ragione è facile.
Vivere la ragione di Oz è più difficile.
Una conoscente, madre di un bambino gravemente disabile, mi disse un giorno che solo chi è madre di un figlio portatore di handicap è veramente madre e sa che cosa significhi esserlo.
“Cara signora, mi confidò una volta una donna molto distinta e cordiale, lei non sa che cosa voglia dire avere due figli maschi. Non è certo come avere due bambine, più pulite, più obbedienti. Danno anche più soddisfazioni, sa. Io, invece, ho davvero molto da fare. Per non parlare poi di chi ne ha uno solo di figlio e non sa proprio come ti cambia la vita il secondo.”
E una vicina di casa gentile, vedova da poco, mi ripetè all’infinito che no, non potevo capire il suo dolore, perché non ci ero passata. Solo chi aveva subito una perdita come la sua poteva capire, forse, la sua angoscia.
Anche queste, educate ma esplicite accuse di inadeguatezza, sono forme mascherate di fanatismo.
Avrei preferenza di no, non vorrei vivere le vostre vite, vorrei rispondere. Mi basta la mia.
Rassegniamoci. Vorremmo sempre vincere, non importa se in gioie o in dolori, forse neanche ci interessa veramente, vorremmo avere o essere, quasi si confondono, qualcosa in più degli altri. Ma il destino vuole che in più abbiamo la nostra di vita, in meno abbiamo quella altrui. Pareggio. Questo campionato non lo vince nessuno.
Non resta che immaginare, allora, la vita degli altri. E accettare che basti. E sia già molto.
Anche se non serve al possesso e aiuta “solo” a sentire il pianto sommesso della donna sola senza il compagno della sua vita, ad ascoltare l’insofferenza di una famiglia che si sta perdendo nella rincorsa del solo benessere visibile e socialmente appagante, a leggere tra le rughe di una madre stanca i segni del dolore di una maternità ferita nei desideri della sua giovinezza.
Immaginare serve a poco, insomma, ma non farlo e vivere singolarmente la propria vita disconoscendo il plurale sarebbe l’unica, vera sconfitta.
“Avrei preferenza di no.”
“Non vorreste dirmi nulla su di voi?”
“Avrei preferenza di no".”
“Ma quale ragionevole obbiezione può spingervi a non parlare? Io ho per voi sentimenti amichevoli.”
[…]
“Qual è la vostra risposta, Bartleby?” dissi dopo aver atteso una risposta per un buon pezzo di tempo, durante il quale il suo viso s’era mantenuto immobile, tranne per il più impercettibile tremore nelle pallide e sottili labbra.
“Al momento ho preferenza a non rispondere,” disse…
[H. Melville, Bartleby lo scrivano, Feltrinelli 1991]
In un articolo apparso qualche giorno fa sul Corriere della sera, Amos Oz ci suggeriva di leggere romanzi perché capire le ragioni di carta dei personaggi aiuta a capire le azioni e i pensieri di carne di chi ci sta attorno.
Già in un suo breve saggio (Contro il fanatismo, Feltrinelli 2004), lo stesso autore israeliano raccontava l’aneddoto dell’amico che, alle parole oltranziste e violente dell’autista che lo accompagnava e tentava di convincerlo della bontà dell’idea che ogni ebreo si incaricasse di sterminare un certo numero di arabi per risolvere il conflitto in Medio Oriente, rispondeva: "Ok, supponiamo allora che a lei venga assegnato un condominio nella sua città, Haifa, e debba bussare a ogni porta o suonare il campanello, e domandare: «Mi scusi signore, o mi scusi signora, lei è arabo?» e se la risposta è sì, allora sparare. Poi lei finisce il suo condominio, se ne sta per andare a casa, ma in quel momento sente che su al quarto piano c’è un bimbo che piange. Che fa, torna indietro e spara al bambino? Sì o no?”. E a quel punto, l’autista, dopo qualche minuto di silenzio, ribatteva: “Lo sa, lei è molto crudele”.
Se immaginare serve, magari poco ma serve, al fanatico dichiarato, a maggior ragione può aiutare coloro che tali non si sentono e spesso sono pronti a indignarsi davanti alle più diverse manifestazioni di intolleranza verso gli altri, è la considerazione conclusiva dell’autore.
Pensare che Oz abbia ragione è facile.
Vivere la ragione di Oz è più difficile.
Una conoscente, madre di un bambino gravemente disabile, mi disse un giorno che solo chi è madre di un figlio portatore di handicap è veramente madre e sa che cosa significhi esserlo.
“Cara signora, mi confidò una volta una donna molto distinta e cordiale, lei non sa che cosa voglia dire avere due figli maschi. Non è certo come avere due bambine, più pulite, più obbedienti. Danno anche più soddisfazioni, sa. Io, invece, ho davvero molto da fare. Per non parlare poi di chi ne ha uno solo di figlio e non sa proprio come ti cambia la vita il secondo.”
E una vicina di casa gentile, vedova da poco, mi ripetè all’infinito che no, non potevo capire il suo dolore, perché non ci ero passata. Solo chi aveva subito una perdita come la sua poteva capire, forse, la sua angoscia.
Anche queste, educate ma esplicite accuse di inadeguatezza, sono forme mascherate di fanatismo.
Avrei preferenza di no, non vorrei vivere le vostre vite, vorrei rispondere. Mi basta la mia.
Rassegniamoci. Vorremmo sempre vincere, non importa se in gioie o in dolori, forse neanche ci interessa veramente, vorremmo avere o essere, quasi si confondono, qualcosa in più degli altri. Ma il destino vuole che in più abbiamo la nostra di vita, in meno abbiamo quella altrui. Pareggio. Questo campionato non lo vince nessuno.
Non resta che immaginare, allora, la vita degli altri. E accettare che basti. E sia già molto.
Anche se non serve al possesso e aiuta “solo” a sentire il pianto sommesso della donna sola senza il compagno della sua vita, ad ascoltare l’insofferenza di una famiglia che si sta perdendo nella rincorsa del solo benessere visibile e socialmente appagante, a leggere tra le rughe di una madre stanca i segni del dolore di una maternità ferita nei desideri della sua giovinezza.
Immaginare serve a poco, insomma, ma non farlo e vivere singolarmente la propria vita disconoscendo il plurale sarebbe l’unica, vera sconfitta.
giovedì 1 novembre 2007
A ciascuno il suo
Dopo la guerra io speravo che sì, diventavamo davvero marito e moglie. Avevo pensato anche ai nomi dei bambini. Invece lui, dopo il lavoro, andava al trani, mica neanche a bere, a guardare gli altri. E poi andava alla corale della chiesa di Sant’Eustorgio e quando tornava io era già a letto. Avevo il sonno leggero, lo sentivo infilarsi sotto le coperte e pensavo che era la volta buona. Ma lui, come toccava il cuscino, era belle che addormentato. Allora ga metevi lì i peè, che erano sempre un giaz. Almeno scaldum i peè, demoni. Lü al diseva nient, al sa girava per tucam dumè i peè e al s’indurmentava sübit.
Insomma hai capito, tuseta, sono una si-gno-ri-na di guerra.
[dal Diario di una sposa per procura]
Se non ricordo male, una decina di anni fa in un film di Abbas Kiarostami, Sotto gli ulivi, i due giovani e innamorati protagonisti si dicevano che il matrimonio è quando «io preparo una tazza di the a te e tu prepari una tazza di the a me».
Oggi, nel film di Silvio Soldini Giorni e nuvole, una coppia vecchia non certo di anni, ma di certezze, sembra autosospendersi dal compito di cercare di essere una bevanda ristoratrice l’uno per l’altro.
Nel plauso generale che ha accompagnato l’uscita del film, qualche recensione ha evidenziato che, pur essendo una pellicola di valore, manca nella storia il calore delle emozioni di un altro film di Soldini, Pane e tulipani, dove una vacanza dal matrimonio scatena un’avventura d’amore per la vita salutare non solo per la protagonista, ma anche per gli altri personaggi, accomunati da una lunga e mai diagnosticata, eppure grave, malattia del quotidiano.
Nella storia di oggi, invece, la famiglia di Elsa e Michele gode di ottima salute fino all’esplosione di un male tanto inaspettato e traumatizzante per sé, quanto, in fondo, prevedibile anche se doloroso per gli altri, che impone ai protagonisti parole e tempi fino a quel momento sconosciuti. E la fatica che ne esce è dura e non concede spazi alla morbidezza della poesia, senza la quale si può mangiare ma non si può vivere.
Eppure a me sembra che questo ultimo film del regista milanese non abbia niente da invidiare al precedente: entrambi sono storie dei tempi e il tempo che stiamo vivendo oggi è sicuramente più spietato anche solo di pochi anni fa. Emblematica mi è sembrata la storia degli ex operai di Michele a loro volta senza un lavoro e sul punto, insieme con lui, di raccontarci una favola di pane e tulipani. Ma l’esito di questa boccata d’aria non è del tutto piacevole, forse è aria calda, d’accordo, ma una volta passata ci lascia arsi e assetati più di prima.
Oggi, sembra dire il film, e in questo è perfetto, è un’altra storia. Nessuno regala il sereno. Oggi bisogna convivere con questo cielo un po’ così, di giorno nuvoloso senza pioggia vera, di notte buio senza stelle vive.
E poi, il cielo è anche troppo. Per due basta quello in una stanza.
Insomma hai capito, tuseta, sono una si-gno-ri-na di guerra.
[dal Diario di una sposa per procura]
Se non ricordo male, una decina di anni fa in un film di Abbas Kiarostami, Sotto gli ulivi, i due giovani e innamorati protagonisti si dicevano che il matrimonio è quando «io preparo una tazza di the a te e tu prepari una tazza di the a me».
Oggi, nel film di Silvio Soldini Giorni e nuvole, una coppia vecchia non certo di anni, ma di certezze, sembra autosospendersi dal compito di cercare di essere una bevanda ristoratrice l’uno per l’altro.
Nel plauso generale che ha accompagnato l’uscita del film, qualche recensione ha evidenziato che, pur essendo una pellicola di valore, manca nella storia il calore delle emozioni di un altro film di Soldini, Pane e tulipani, dove una vacanza dal matrimonio scatena un’avventura d’amore per la vita salutare non solo per la protagonista, ma anche per gli altri personaggi, accomunati da una lunga e mai diagnosticata, eppure grave, malattia del quotidiano.
Nella storia di oggi, invece, la famiglia di Elsa e Michele gode di ottima salute fino all’esplosione di un male tanto inaspettato e traumatizzante per sé, quanto, in fondo, prevedibile anche se doloroso per gli altri, che impone ai protagonisti parole e tempi fino a quel momento sconosciuti. E la fatica che ne esce è dura e non concede spazi alla morbidezza della poesia, senza la quale si può mangiare ma non si può vivere.
Eppure a me sembra che questo ultimo film del regista milanese non abbia niente da invidiare al precedente: entrambi sono storie dei tempi e il tempo che stiamo vivendo oggi è sicuramente più spietato anche solo di pochi anni fa. Emblematica mi è sembrata la storia degli ex operai di Michele a loro volta senza un lavoro e sul punto, insieme con lui, di raccontarci una favola di pane e tulipani. Ma l’esito di questa boccata d’aria non è del tutto piacevole, forse è aria calda, d’accordo, ma una volta passata ci lascia arsi e assetati più di prima.
Oggi, sembra dire il film, e in questo è perfetto, è un’altra storia. Nessuno regala il sereno. Oggi bisogna convivere con questo cielo un po’ così, di giorno nuvoloso senza pioggia vera, di notte buio senza stelle vive.
E poi, il cielo è anche troppo. Per due basta quello in una stanza.
martedì 23 ottobre 2007
omnia munda...
Dissi «Cavolo!» improvvisamente ad alta voce. Mi ricordai quando avevo detto «cavolo» parlando alla bella farmacista del paese, e subito avevo aggiunto: «Cavolo è una parola che, per non involgarire la conversazione, si usa invece di un’altra meno innocua». «Lo so» aveva detto lei, sorridendo gentilmente, «invece di accipicchia».
[Aldo Buzzi, Parliamo d’altro, Ponte alle grazie 2006]
“L’hiver fait le travail des grands maitres: il semplifie…”
[Christian Bobin, Une bibliothèque de nuages, Lettres vives, 2006]
Pensieri per una persona che non c’è più.
La prima volta che lo vidi, arrivò tardi, lasciò ad altri il compito dell’ospitalità.
Apparve subito taciturno, poco incline alla ribalta affettuosa dei saluti dovuti.
Tornava dalla spesa con il carico generoso di chi compera molto non per sé.
Uscì di nuovo, quasi subito: “Devo ritirare le materassa" disse con naturalezza.
Non l’avevo mai sentito, a Milano intendo, “le materassa”, solo letto in Manzoni e per me era parola sottile, di carta. Con lui divenne vera, l’ideale per un sonno buono.
Dopo fu normale. Il caos che gli raccontavo diventava trasparente e facile.
Aveva attraversato molti inverni, prima di diventarlo lui stesso, e aveva imparato a chiamare sole il ghiaccio e rendeva morbida la solitudine.
Non era padre, né zio, né nonno, anzi accumulava in sé soprattutto ‘non’.
Era un ‘senza’, ma la sua casa era solo ‘con’ e ‘per’.
‘Mio’ era ‘nostro’, ‘sono stanco’ si trasformava in ‘beh beh, pazienza’, ‘bellissimo’ diventava ‘quando è novello tutto è bello’.
Asciugava parole e sentimenti e gli sono grata di avermi insegnato a tradurre la vita.
[Aldo Buzzi, Parliamo d’altro, Ponte alle grazie 2006]
“L’hiver fait le travail des grands maitres: il semplifie…”
[Christian Bobin, Une bibliothèque de nuages, Lettres vives, 2006]
Pensieri per una persona che non c’è più.
La prima volta che lo vidi, arrivò tardi, lasciò ad altri il compito dell’ospitalità.
Apparve subito taciturno, poco incline alla ribalta affettuosa dei saluti dovuti.
Tornava dalla spesa con il carico generoso di chi compera molto non per sé.
Uscì di nuovo, quasi subito: “Devo ritirare le materassa" disse con naturalezza.
Non l’avevo mai sentito, a Milano intendo, “le materassa”, solo letto in Manzoni e per me era parola sottile, di carta. Con lui divenne vera, l’ideale per un sonno buono.
Dopo fu normale. Il caos che gli raccontavo diventava trasparente e facile.
Aveva attraversato molti inverni, prima di diventarlo lui stesso, e aveva imparato a chiamare sole il ghiaccio e rendeva morbida la solitudine.
Non era padre, né zio, né nonno, anzi accumulava in sé soprattutto ‘non’.
Era un ‘senza’, ma la sua casa era solo ‘con’ e ‘per’.
‘Mio’ era ‘nostro’, ‘sono stanco’ si trasformava in ‘beh beh, pazienza’, ‘bellissimo’ diventava ‘quando è novello tutto è bello’.
Asciugava parole e sentimenti e gli sono grata di avermi insegnato a tradurre la vita.
mercoledì 17 ottobre 2007
io fu, noi è
La politica si è occupata soprattutto di quello che le persone hanno. Le persone sono state identificate come produttori, come consumatori, come proprietari, compratori e venditori. Tutto questo può funzionare nel breve periodo. Non si può fare politica indefinitamente dimenticandosi di mettere al centro dell’attenzione quello che le persone sono.
[Ermanno Bencivenga, da un’intervista del 16 novembre 1992]
“Gli altri sono, bene o male, la prova che noi stiamo vivendo. Non sottovalutarli.” (1970)
[Ennio Flaiano, Diario degli errori, Adelphi 1976]
Lunghe file ai seggi. Molto stupore e sorpresa ( compiaciuti in alcuni, rancidi in altri ), nei commenti del giorno dopo.
La gente ha voglia di cambiamento, si dice. Certo, ma forse c’è altro.
In un clima, pubblico e privato, sempre più simile a uno sgocciolatoio dell’io, una coda rispettata senza ansia da prestazione, l’esercizio di una azione egualitaria, la scrittura di un segno anonimo, un voto e la democrazia, insomma, sono un invito a pensare che l’io abita, soprattutto e naturalmente, negli essiccatoi.
[Ermanno Bencivenga, da un’intervista del 16 novembre 1992]
“Gli altri sono, bene o male, la prova che noi stiamo vivendo. Non sottovalutarli.” (1970)
[Ennio Flaiano, Diario degli errori, Adelphi 1976]
Lunghe file ai seggi. Molto stupore e sorpresa ( compiaciuti in alcuni, rancidi in altri ), nei commenti del giorno dopo.
La gente ha voglia di cambiamento, si dice. Certo, ma forse c’è altro.
In un clima, pubblico e privato, sempre più simile a uno sgocciolatoio dell’io, una coda rispettata senza ansia da prestazione, l’esercizio di una azione egualitaria, la scrittura di un segno anonimo, un voto e la democrazia, insomma, sono un invito a pensare che l’io abita, soprattutto e naturalmente, negli essiccatoi.
mercoledì 10 ottobre 2007
pensa un po'
Un format televisivo di grande successo, italiano ed europeo beninteso, prevede che i concorrenti della trasmissione scelgano la risposta giusta, a una data domanda di argomento vario e sempre diverso, tra una rosa di possibili scelte che viene fornita dal conduttore. Fin qui nessuno stupore, anche se magari il quiz dei nostri ricordi non si presentava come un test a risposta multipla, ma come un esercizio di memoria e il prodotto di una conoscenza che faceva di tutto per apparire solida, seppure in un determinato ed esclusivo ambito. I tempi cambiano, si sa.
Il problema è un altro. E a me crea un’insofferenza per la quale cambio canale.
Prima di dare la risposta giudicata corretta i concorrenti sono implicitamente ma rigorosamente tenuti (suppongo sia un obbligo cui sono vincolati nel momento in cui vengono selezionati) a esprimersi con un ragionamento articolato (?) sui motivi dell’esclusione o della scelta tra le varie opzioni a disposizioni.
Ai più la cosa sembra piacere o comunque non pare ci sia nulla di irritante.
Che c’è di strano se mentre prepari la minestra senti uno che ragiona a voce alta, con un coinvolgimento intellettuale di caratura universitaria, facendo ricorso al suo passato di studente, di lettore onnivoro, di nipote di professori universitari o frugando tra il suo presente di cittadino sensibile ai problemi della comunità, di padre che segue i figli negli studi, di lavoratore felice di esserlo, e si chiede se lo scalogno sia il maschile della scalogna, una malattia prodotta dagli acari, l’abito dei sacerdoti di Aton o una pianta della Liliacee? Nulla, in effetti. Anzi, ringraziamo gli ideatori del programma che portano lo stesso sapere enciclopedico nelle cucine, nelle stanze d’ospedale, nelle sale d’attesa e anche nelle galere. Tutti uguali insomma (ma per la televisione non è una novità), tutti sapremo che cosa sia lo scalogno, e vivremo infelici ma sapienti.
Mentre il nostro concorrente ragiona e ragiona, e ci mostra abilità logiche e dialettiche, il nostro brodino cuoce e ai nostri figli che protestano perché vorrebbero una pizza e ci chiedono perché non possano essere accontentati, ci sentiamo rispondere, semplicemente: “Perché no”.
O, magari, mentre ascoltiamo in pigiama il nostro uomo che ha già escluso la veste sacerdotale e si sta arrovellando per i suoi scarsi ricordi della morfologia nominale, passa il medico di turno che preghiamo di aiutarci a capire come poter convivere con la malattia appena accertata e ci sentiamo rispondere: “Non so che dirle, se ne faccia una ragione, sa quanti sono come lei”.
E se un nostro collega ci dovesse dire, a fronte di una richiesta di spiegazione per un comportamento scorretto: “Non ho niente da dirti, se ti va bene è così, altrimenti fattela andare bene”, non serve indignarsi o stupirsi di noi stessi o degli altri.
La vita non è un format. Non fa audience. Il più delle volte non paga.
Dunque non serve ragionare. Potremo continuare a essere infelici, sapienti e indisponenti, tanto nessuno si accorgerà.
Perché pensare è un virus contagioso quando ha i lustrini, ma piuttosto che rischiare ogni giorno un’epidemia meglio farsi un vaccino di quotidiana incomunicabilità.
Il problema è un altro. E a me crea un’insofferenza per la quale cambio canale.
Prima di dare la risposta giudicata corretta i concorrenti sono implicitamente ma rigorosamente tenuti (suppongo sia un obbligo cui sono vincolati nel momento in cui vengono selezionati) a esprimersi con un ragionamento articolato (?) sui motivi dell’esclusione o della scelta tra le varie opzioni a disposizioni.
Ai più la cosa sembra piacere o comunque non pare ci sia nulla di irritante.
Che c’è di strano se mentre prepari la minestra senti uno che ragiona a voce alta, con un coinvolgimento intellettuale di caratura universitaria, facendo ricorso al suo passato di studente, di lettore onnivoro, di nipote di professori universitari o frugando tra il suo presente di cittadino sensibile ai problemi della comunità, di padre che segue i figli negli studi, di lavoratore felice di esserlo, e si chiede se lo scalogno sia il maschile della scalogna, una malattia prodotta dagli acari, l’abito dei sacerdoti di Aton o una pianta della Liliacee? Nulla, in effetti. Anzi, ringraziamo gli ideatori del programma che portano lo stesso sapere enciclopedico nelle cucine, nelle stanze d’ospedale, nelle sale d’attesa e anche nelle galere. Tutti uguali insomma (ma per la televisione non è una novità), tutti sapremo che cosa sia lo scalogno, e vivremo infelici ma sapienti.
Mentre il nostro concorrente ragiona e ragiona, e ci mostra abilità logiche e dialettiche, il nostro brodino cuoce e ai nostri figli che protestano perché vorrebbero una pizza e ci chiedono perché non possano essere accontentati, ci sentiamo rispondere, semplicemente: “Perché no”.
O, magari, mentre ascoltiamo in pigiama il nostro uomo che ha già escluso la veste sacerdotale e si sta arrovellando per i suoi scarsi ricordi della morfologia nominale, passa il medico di turno che preghiamo di aiutarci a capire come poter convivere con la malattia appena accertata e ci sentiamo rispondere: “Non so che dirle, se ne faccia una ragione, sa quanti sono come lei”.
E se un nostro collega ci dovesse dire, a fronte di una richiesta di spiegazione per un comportamento scorretto: “Non ho niente da dirti, se ti va bene è così, altrimenti fattela andare bene”, non serve indignarsi o stupirsi di noi stessi o degli altri.
La vita non è un format. Non fa audience. Il più delle volte non paga.
Dunque non serve ragionare. Potremo continuare a essere infelici, sapienti e indisponenti, tanto nessuno si accorgerà.
Perché pensare è un virus contagioso quando ha i lustrini, ma piuttosto che rischiare ogni giorno un’epidemia meglio farsi un vaccino di quotidiana incomunicabilità.
martedì 2 ottobre 2007
la f[r]ase semplice (per gli altri, forse)
Io mangio la mela. La mela è mangiata da me.
Si racconta che, un giorno, dopo un limitato agire e un lungo subire, io, mela e me si siano alleati e abbiano rifiutato di prestarsi al consueto gioco delle parti.
Lo stomaco pare abbia ringraziato e vinto gli antichi conati di protesta.
Grazie a nuovi alimenti e complementi acquistammo preziosi centimetri di consapevolezza.
(per una grammatica politica)
Si racconta che, un giorno, dopo un limitato agire e un lungo subire, io, mela e me si siano alleati e abbiano rifiutato di prestarsi al consueto gioco delle parti.
Lo stomaco pare abbia ringraziato e vinto gli antichi conati di protesta.
Grazie a nuovi alimenti e complementi acquistammo preziosi centimetri di consapevolezza.
(per una grammatica politica)
martedì 25 settembre 2007
indicativo presente (a sé stesso)
Io non faccio niente di male
Tu fai le tue scelte
Lui fa in fretta a parlare
Noi lo facciamo per il tuo bene
Voi fate come tutti
Loro fanno il bello e il cattivo tempo
(per una grammatica antipolitica)
Tu fai le tue scelte
Lui fa in fretta a parlare
Noi lo facciamo per il tuo bene
Voi fate come tutti
Loro fanno il bello e il cattivo tempo
(per una grammatica antipolitica)
martedì 18 settembre 2007
Servabo
Qualche tempo fa, un giornalista di valore, oggi direttore di un importante quotidiano, alla domanda su quali fossero i criteri per cui una notizia arrivasse e (soprattutto) rimanesse in prima pagina, rispose che, su tutti, valeva il carattere della “politicità”, dell’interesse per il bene collettivo e pubblico. Questo valeva ovviamente per le notizie dagli interni o dagli esteri, ma anche per la cronaca nera, per gli spettacoli e così via.
Un delitto, esemplificava, passata l’eco del momento, è oggettivamente qualcosa che riguarda i protagonisti, i familiari e gli inquirenti. Può ritornare agli strilli dei riflettori se, magari, durante le indagini emergono degli elementi tali per cui lo si può collocare in una dimensione di criminalità organizzata in un determinato territorio o se, grazie alla raffinatezza delle tecnologia a disposizione, si scoprono piste di indagine prima insospettate, dando luogo dunque a una “nuova” notizia.
A tutto questo ripensavo ascoltando e leggendo le cronache sulla chiamata a raccolta di Grillo, in piazza prima, attraverso le riprese televisive poi, sul blog sempre.
I commenti la considerano comunque espressione di antipolitica, e che si sia schierati pro o contro le parole e i proclami del comico, in realtà la notizia si sta comportando come la più politica di questi tempi per spazio e tempo occupati su ogni fonte di informazione.
Non so se intenzionalmente sia l’una o l’altra cosa, ma mi sorprendo di come la parola antipolitica sia comparsa solo in questa circostanza, come se questo fosse l’evento più oppositivo e contrapposto alla costituzione, organizzazione e amministrazione dello stato.
A me sembra che da lungo tempo si stiano verificando manifestazioni di antipolitica e, ormai, all’interno della cosiddetta stessa politica: la nascita e la crescita della Lega Nord, la fondazione e l’affermazione di Forza Italia, il loro rispettivo e inquietante radicamento in alcune regioni del Nord e in Sicilia, per esempio.
Tutte circostanze che non solo non si è mai avuto il coraggio di chiamare antipolitiche, ma alle quali si è sempre riservato uno spazio e una dignità politici.
Forse allora l’antipolitica diventa politica quando asseconda i desideri della gente.
Ma desiderare non è negato alla politica, non c’è affatto bisogno che cediamo le nostre aspettative in cambio di progenitori celti; I have a dream diceva M. L. King e non portava cravatte Marinella.
Io penso a volte che la stessa gente sia antipolitica, quando riempie i carrelli di cibi che non ce la farà a consumare, cambia telefoni e computer pur funzionanti con nuovi più smaglianti modelli o acquista auto più veloci del limite di velocità, quando pretende di avere comunque e sempre ragione o tratta i figli come proprietà privata o vive la settimana in attesa solo della sua vacanziera fine.
E sono sempre più convinta che antipolitici siano molti telegiornali, giornali e trasmissioni che, appunto, compiacciono e alimentano i desideri della gente, in un rapporto vizioso e morboso che ci relega in un ruolo sottomesso a chi può decidere ciò che possiamo e dobbiamo desiderare.
Antipolitico è con-fondere i bisogni con i desideri e promettere che ogni desiderio sarà realtà.
Sono andata a rileggermi le parole di Luigi Pintor quando scrisse che la sua disposizione a subire l’influsso della guerra forse venne acuita dalla scritta che trovò sul ritratto di un antenato: servabo. «Può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile. Ma conservare o servire sono termini sconvenienti, che implicano soggezione, il senso di un limite, un vincolo».
Sentire l’influenza della politica, scegliere la politica e non l’antipolitica significa, in fondo, chiedere che la politica coincida con una sola parola: servabo.
Un delitto, esemplificava, passata l’eco del momento, è oggettivamente qualcosa che riguarda i protagonisti, i familiari e gli inquirenti. Può ritornare agli strilli dei riflettori se, magari, durante le indagini emergono degli elementi tali per cui lo si può collocare in una dimensione di criminalità organizzata in un determinato territorio o se, grazie alla raffinatezza delle tecnologia a disposizione, si scoprono piste di indagine prima insospettate, dando luogo dunque a una “nuova” notizia.
A tutto questo ripensavo ascoltando e leggendo le cronache sulla chiamata a raccolta di Grillo, in piazza prima, attraverso le riprese televisive poi, sul blog sempre.
I commenti la considerano comunque espressione di antipolitica, e che si sia schierati pro o contro le parole e i proclami del comico, in realtà la notizia si sta comportando come la più politica di questi tempi per spazio e tempo occupati su ogni fonte di informazione.
Non so se intenzionalmente sia l’una o l’altra cosa, ma mi sorprendo di come la parola antipolitica sia comparsa solo in questa circostanza, come se questo fosse l’evento più oppositivo e contrapposto alla costituzione, organizzazione e amministrazione dello stato.
A me sembra che da lungo tempo si stiano verificando manifestazioni di antipolitica e, ormai, all’interno della cosiddetta stessa politica: la nascita e la crescita della Lega Nord, la fondazione e l’affermazione di Forza Italia, il loro rispettivo e inquietante radicamento in alcune regioni del Nord e in Sicilia, per esempio.
Tutte circostanze che non solo non si è mai avuto il coraggio di chiamare antipolitiche, ma alle quali si è sempre riservato uno spazio e una dignità politici.
Forse allora l’antipolitica diventa politica quando asseconda i desideri della gente.
Ma desiderare non è negato alla politica, non c’è affatto bisogno che cediamo le nostre aspettative in cambio di progenitori celti; I have a dream diceva M. L. King e non portava cravatte Marinella.
Io penso a volte che la stessa gente sia antipolitica, quando riempie i carrelli di cibi che non ce la farà a consumare, cambia telefoni e computer pur funzionanti con nuovi più smaglianti modelli o acquista auto più veloci del limite di velocità, quando pretende di avere comunque e sempre ragione o tratta i figli come proprietà privata o vive la settimana in attesa solo della sua vacanziera fine.
E sono sempre più convinta che antipolitici siano molti telegiornali, giornali e trasmissioni che, appunto, compiacciono e alimentano i desideri della gente, in un rapporto vizioso e morboso che ci relega in un ruolo sottomesso a chi può decidere ciò che possiamo e dobbiamo desiderare.
Antipolitico è con-fondere i bisogni con i desideri e promettere che ogni desiderio sarà realtà.
Sono andata a rileggermi le parole di Luigi Pintor quando scrisse che la sua disposizione a subire l’influsso della guerra forse venne acuita dalla scritta che trovò sul ritratto di un antenato: servabo. «Può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile. Ma conservare o servire sono termini sconvenienti, che implicano soggezione, il senso di un limite, un vincolo».
Sentire l’influenza della politica, scegliere la politica e non l’antipolitica significa, in fondo, chiedere che la politica coincida con una sola parola: servabo.
domenica 9 settembre 2007
per... Vera
e per tutti coloro per i quali domani è un altro primo giorno.
È come capodanno.
Un tempo lo festeggiavo al di là della cattedra come capita a tutti, oggi al di qua, come accade ai pochi che non sono riusciti ad allontanarsi da un passato che certo hanno amato più di ogni altra cosa.
Ricordo un trenta settembre (una volta la scuola iniziava il primo ottobre) di trent’anni fa, vigilia della prima superiore, al ritorno da un’interminabile visita medica per i piccoli di casa.
Si cenava tutti insieme con la disinvoltura e l’allegria che di solito toccava solo alle cene del sabato.
Il sabato era, infatti, un giorno speciale, se non altro per la spesa che si svolgeva come un rito in uno dei primi supermercati aperti in zona e per la cena di prelibatezze acquistate già pronte che ne seguiva. Si mangiava vociando, elettrizzati per la quantità degli acquisti, spesso rubando dai piatti del vicino i bocconi che sembravano più appetitosi. Era quasi tutto permesso e senza rimproveri.
Non è che accadesse proprio tutti i fine settimana: c’erano, come dire, sabati più sabati degli altri, sabati della spesa “grossa” dalla festa garantita, il cui clima spensierato si spandeva oleoso anche sulla domenica successiva.
Ogni tanto, però, il calendario si sbagliava e in certe occasioni moltiplicava questi giorni speciali.
Poteva accadere il lunedì o il giovedì, non importava: contava l’imprevisto che spingeva una famiglia numerosa di figli bambini a un esodo magari programmato ma che comportava un rientro disordinato e una cena improvvisata.
Una visita dal pediatra era quanto di più frequente poteva capitare e sollevava l’attesa più frizzante, almeno in noi figli. Sapevamo che ci avrebbe atteso un pasto non solo fuori orario, ma soprattutto fuori controllo.
Anche quel trenta settembre doveva essere un ‘sabedì’, cui si aggiungeva l’ansia per l’inizio della scuola. Erano anni in cui le addizioni sommavano quasi esclusivamente emozioni positive e tutto diventava nutrimento.
Durante la cena ascoltammo dalla voce composta e ufficiale del presidente della repubblica il messaggio augurale per il nuovo anno. L’attività delle forchette fu sospesa di colpo: il rispetto delle istituzioni che ci era stato insegnato e il fatto che il messaggio fosse diffuso a reti unificate dalla televisione ci imponeva immediato rispetto, anche se dubito che noi si capisse quello che l’autorità andava dicendo sull’importanza della scuola.
Ricordo però l’emozione. Vedo ancora distintamente dove ero seduta quella sera e ricordo che pensai di voler provare per sempre il sapore di quell’emozione, di quel senso di attesa e di sorpresa che in qualche modo il messaggio lasciava presagire mi sarebbe toccato il giorno successivo.
Forse è per questo. Che ho fatto l’insegnante, intendo.
Per l’emozione di parole al prosciutto, verrebbe da dire.
Per l’emozione che si prova prima di scartare i regali, quando immaginare è più bello di scoprire.
Da allora ogni anno è un po’ come allora. Anche se spesso il tempo delle sottrazioni ha rubato la scena alle somme.
Per questa sera ho scelto un concerto.
Niente prosciutto, meglio Beethoven, vista l’età. Magari L’eroica aiuta di più.
È come capodanno.
Un tempo lo festeggiavo al di là della cattedra come capita a tutti, oggi al di qua, come accade ai pochi che non sono riusciti ad allontanarsi da un passato che certo hanno amato più di ogni altra cosa.
Ricordo un trenta settembre (una volta la scuola iniziava il primo ottobre) di trent’anni fa, vigilia della prima superiore, al ritorno da un’interminabile visita medica per i piccoli di casa.
Si cenava tutti insieme con la disinvoltura e l’allegria che di solito toccava solo alle cene del sabato.
Il sabato era, infatti, un giorno speciale, se non altro per la spesa che si svolgeva come un rito in uno dei primi supermercati aperti in zona e per la cena di prelibatezze acquistate già pronte che ne seguiva. Si mangiava vociando, elettrizzati per la quantità degli acquisti, spesso rubando dai piatti del vicino i bocconi che sembravano più appetitosi. Era quasi tutto permesso e senza rimproveri.
Non è che accadesse proprio tutti i fine settimana: c’erano, come dire, sabati più sabati degli altri, sabati della spesa “grossa” dalla festa garantita, il cui clima spensierato si spandeva oleoso anche sulla domenica successiva.
Ogni tanto, però, il calendario si sbagliava e in certe occasioni moltiplicava questi giorni speciali.
Poteva accadere il lunedì o il giovedì, non importava: contava l’imprevisto che spingeva una famiglia numerosa di figli bambini a un esodo magari programmato ma che comportava un rientro disordinato e una cena improvvisata.
Una visita dal pediatra era quanto di più frequente poteva capitare e sollevava l’attesa più frizzante, almeno in noi figli. Sapevamo che ci avrebbe atteso un pasto non solo fuori orario, ma soprattutto fuori controllo.
Anche quel trenta settembre doveva essere un ‘sabedì’, cui si aggiungeva l’ansia per l’inizio della scuola. Erano anni in cui le addizioni sommavano quasi esclusivamente emozioni positive e tutto diventava nutrimento.
Durante la cena ascoltammo dalla voce composta e ufficiale del presidente della repubblica il messaggio augurale per il nuovo anno. L’attività delle forchette fu sospesa di colpo: il rispetto delle istituzioni che ci era stato insegnato e il fatto che il messaggio fosse diffuso a reti unificate dalla televisione ci imponeva immediato rispetto, anche se dubito che noi si capisse quello che l’autorità andava dicendo sull’importanza della scuola.
Ricordo però l’emozione. Vedo ancora distintamente dove ero seduta quella sera e ricordo che pensai di voler provare per sempre il sapore di quell’emozione, di quel senso di attesa e di sorpresa che in qualche modo il messaggio lasciava presagire mi sarebbe toccato il giorno successivo.
Forse è per questo. Che ho fatto l’insegnante, intendo.
Per l’emozione di parole al prosciutto, verrebbe da dire.
Per l’emozione che si prova prima di scartare i regali, quando immaginare è più bello di scoprire.
Da allora ogni anno è un po’ come allora. Anche se spesso il tempo delle sottrazioni ha rubato la scena alle somme.
Per questa sera ho scelto un concerto.
Niente prosciutto, meglio Beethoven, vista l’età. Magari L’eroica aiuta di più.
venerdì 7 settembre 2007
otto settembre
Dagli incontri con sua madre T. rientrava carico di odio per noi e di rancore per lei.
A letto, la sera, cominciava una specie di danza sonora: sbuffava, mugolava sommesso poi sempre più forte, violento fino a urlare suoni sconnessi e laceranti.
Inutile cercare un senso compiuto in quei fiati che davano voce al dolore di non poter essere ogni giorno anche figlio, non solo creatura, della propria madre.
Quel male primitivo lo disarcionava dalle parole e dagli affetti.
Una vecchia un giorno mi disse:” E’ il dolore, il dolore vivo che ha dentro. Finchè vive, non parla. Il dolore parla solo da morto. Prova tu a parlare per lui, per loro, per il bambino e il suo dolore”.
E sera dopo sera raccontavo storie e passato, immaginavo un futuro che avrei ignorato, inventavo favole che gli erano mancate, mentre T. si calmava e ascoltava tutto e sempre, con il male in un silenzio di tregua più che di resa, pronto a ricominciare i gemiti se tacevo solo pochi secondi.
Ma se la vecchia aveva ragione, le parole avrebbero vinto, bastava scovare quelle giuste e, forse un giorno, nostre.
Invece no, ogni volta come la prima e una settimana come l’altra, senza miglioramenti magari piccoli ma duraturi.
Cominciai a chiedermi allora dove finissero quelle parole, tante, diverse che pronunciavo con passione e tenerezza e che pure venivano ascoltate con avidità e cura, lo sentivo.
Dove si infilavano, perché si sottraevano al compito, in quale penombra si isolavano, non l’avrei mai saputo.
Tutto uguale, tutto come sempre per noi, T. con il suo dolore vivo, io con la mia speranza, lei sì, morente.
Le parole forse a spasso, libere di essere inutili e gratuite.
Perché le parole, forse, non c’entrano quasi mai con la vita.
A letto, la sera, cominciava una specie di danza sonora: sbuffava, mugolava sommesso poi sempre più forte, violento fino a urlare suoni sconnessi e laceranti.
Inutile cercare un senso compiuto in quei fiati che davano voce al dolore di non poter essere ogni giorno anche figlio, non solo creatura, della propria madre.
Quel male primitivo lo disarcionava dalle parole e dagli affetti.
Una vecchia un giorno mi disse:” E’ il dolore, il dolore vivo che ha dentro. Finchè vive, non parla. Il dolore parla solo da morto. Prova tu a parlare per lui, per loro, per il bambino e il suo dolore”.
E sera dopo sera raccontavo storie e passato, immaginavo un futuro che avrei ignorato, inventavo favole che gli erano mancate, mentre T. si calmava e ascoltava tutto e sempre, con il male in un silenzio di tregua più che di resa, pronto a ricominciare i gemiti se tacevo solo pochi secondi.
Ma se la vecchia aveva ragione, le parole avrebbero vinto, bastava scovare quelle giuste e, forse un giorno, nostre.
Invece no, ogni volta come la prima e una settimana come l’altra, senza miglioramenti magari piccoli ma duraturi.
Cominciai a chiedermi allora dove finissero quelle parole, tante, diverse che pronunciavo con passione e tenerezza e che pure venivano ascoltate con avidità e cura, lo sentivo.
Dove si infilavano, perché si sottraevano al compito, in quale penombra si isolavano, non l’avrei mai saputo.
Tutto uguale, tutto come sempre per noi, T. con il suo dolore vivo, io con la mia speranza, lei sì, morente.
Le parole forse a spasso, libere di essere inutili e gratuite.
Perché le parole, forse, non c’entrano quasi mai con la vita.
domenica 2 settembre 2007
mercoledì 29 agosto 2007
lettera aperta
Sono già stanca, non so voi, di questo partito democratico non ancora nato e già vecchissimo di brontolii, malumori e sospetti.
Tutto quello che non vorrei in/da un partito, il nascituro ce l’ha.
Riepilogo: si pensa che senza uno slancio nuovo il centrosinistra sia perduto. Bene. Chi di sinistra o di centro può rifiutarsi di riconoscere come proprio il valore della democrazia che già il nome prospetta? Sembra fatta.
Un sindaco si sceglie ed è scelto. Ci piace, magari non a tutti e non per tutto, ma ci piace.
Forse però è poco democratico il modo, non cadiamo in contraddizione, compagni, amici!
Sarabanda di nomi, compresi quelli che vogliono diventare segretari in comproprietà, insomma, plurale è bello, non l’abbiamo ancora capito?
Si candida anche un ministro donna. Alè. Più di un dubbio ci viene che l’eligendo sia meno eligibile, se non altro perché, si sa, le donne durano di solito di più e noi orfane di Segolène non possiamo rassegnarci ad essere solo sorelle di Angela o figlie di Hillary. Chi siamo noi per non essere noi, se abbiamo una brava come lei?
Si fa avanti anche un giovane sottosegretario, bravo, che ha molto studiato per diventare grande e non vecchio. Più di una promessa.
Non mancano altri nomi di gente che, è evidente, sta investendo nel nuovo.
Quanta energia questa ideuzza di partito! Ci prepariamo a confronti seri e costruttivi.
Qualcuno nel frattempo ha rinunciato alla candidatura, ma nessuno ha pensato che forse la rinuncia faccia parte della vita di ogni giorno, perché la politica evidentemente non conosce, e non può rispettare, le leggi del quotidiano. Meglio sussurrare diffidenza perché altri gridino al complotto.
Che fanno allora il prescelto, l’amazzone e il giovane di belle speranze?
Si parlano, si ascoltano, ci ascoltano?
Mentre noi aspettiamo progetti, fiducia, e attenzione – se non soluzione – ai problemi, mentre noi ci lasciamo finalmente investire dalla speranza di un nuovo modo di “essere politica” prima ancora che di “fare politica”, mentre noi abbiamo voglia di tornare a sorridere come dopo un lungo periodo di lutto e scoprire che lo si può fare senza mortali sensi di colpa e di inadeguatezza e abbiamo sempre più voglia di tornare a riconoscerci in un “noi” condiviso, loro, i tre insomma, si fanno ombrosi, solitari, sembra che nulla li accomuni salvo la lotta per il posto (politico?) da ottenere.
Le loro truppe personali, poi, preparano i fuochi e le armi per l’assedio che hanno cominciato a vivere, fiutano in ogni dove il pericolo, leggono in ogni parola l’agguato e il tranello.
Ecco, facciamola finita.
Care milizie d’assalto, mi candido io alla segreteria, così il governo del vostro professore non è in pericolo. E quando ho finito il segretariato di servizio vi lascio il posto, lo metto per iscritto se volete anche se potete fidarvi, perché tanto un altro lavoro, anonimo ma vero, io ce l’ho.
Voi, intanto, paladini, ministri, sottosegretari e professori fate la “parte del vostro dovere”, come diceva mia nonna, vedete di non farlo cadere voi questo governo.
E state zitti, per cortesia, perché vorrei capire come crederci ancora.
Tutto quello che non vorrei in/da un partito, il nascituro ce l’ha.
Riepilogo: si pensa che senza uno slancio nuovo il centrosinistra sia perduto. Bene. Chi di sinistra o di centro può rifiutarsi di riconoscere come proprio il valore della democrazia che già il nome prospetta? Sembra fatta.
Un sindaco si sceglie ed è scelto. Ci piace, magari non a tutti e non per tutto, ma ci piace.
Forse però è poco democratico il modo, non cadiamo in contraddizione, compagni, amici!
Sarabanda di nomi, compresi quelli che vogliono diventare segretari in comproprietà, insomma, plurale è bello, non l’abbiamo ancora capito?
Si candida anche un ministro donna. Alè. Più di un dubbio ci viene che l’eligendo sia meno eligibile, se non altro perché, si sa, le donne durano di solito di più e noi orfane di Segolène non possiamo rassegnarci ad essere solo sorelle di Angela o figlie di Hillary. Chi siamo noi per non essere noi, se abbiamo una brava come lei?
Si fa avanti anche un giovane sottosegretario, bravo, che ha molto studiato per diventare grande e non vecchio. Più di una promessa.
Non mancano altri nomi di gente che, è evidente, sta investendo nel nuovo.
Quanta energia questa ideuzza di partito! Ci prepariamo a confronti seri e costruttivi.
Qualcuno nel frattempo ha rinunciato alla candidatura, ma nessuno ha pensato che forse la rinuncia faccia parte della vita di ogni giorno, perché la politica evidentemente non conosce, e non può rispettare, le leggi del quotidiano. Meglio sussurrare diffidenza perché altri gridino al complotto.
Che fanno allora il prescelto, l’amazzone e il giovane di belle speranze?
Si parlano, si ascoltano, ci ascoltano?
Mentre noi aspettiamo progetti, fiducia, e attenzione – se non soluzione – ai problemi, mentre noi ci lasciamo finalmente investire dalla speranza di un nuovo modo di “essere politica” prima ancora che di “fare politica”, mentre noi abbiamo voglia di tornare a sorridere come dopo un lungo periodo di lutto e scoprire che lo si può fare senza mortali sensi di colpa e di inadeguatezza e abbiamo sempre più voglia di tornare a riconoscerci in un “noi” condiviso, loro, i tre insomma, si fanno ombrosi, solitari, sembra che nulla li accomuni salvo la lotta per il posto (politico?) da ottenere.
Le loro truppe personali, poi, preparano i fuochi e le armi per l’assedio che hanno cominciato a vivere, fiutano in ogni dove il pericolo, leggono in ogni parola l’agguato e il tranello.
Ecco, facciamola finita.
Care milizie d’assalto, mi candido io alla segreteria, così il governo del vostro professore non è in pericolo. E quando ho finito il segretariato di servizio vi lascio il posto, lo metto per iscritto se volete anche se potete fidarvi, perché tanto un altro lavoro, anonimo ma vero, io ce l’ho.
Voi, intanto, paladini, ministri, sottosegretari e professori fate la “parte del vostro dovere”, come diceva mia nonna, vedete di non farlo cadere voi questo governo.
E state zitti, per cortesia, perché vorrei capire come crederci ancora.
sabato 18 agosto 2007
Le vite degli altri
Forse Montale non aveva del tutto ragione quando in occasione della consegna del premio Nobel disse più o meno che, in fondo, la poesia è del tutto inutile alla vita.
In effetti, senza poesia, ma anche senza musica e cinema e teatro si può vivere bene, non benissimo magari, ma certamente bene sì.
Utile alla vita è invece un lavoro e una casa, il cibo, un qualunque libretto di istruzioni per un qualunque aggeggio tecnologico da cui siamo circondati. In molti casi sono utili dei mezzi di trasporto, i vestiti, il denaro più di tutto.
Il resto, non solo l’arte, non è strettamente necessario e può essere addirittura un ostacolo: i sentimenti, per esempio, sono ingombranti, possono essere fraintesi o male interpretati, qualche volta bucano il cuore, diventano una raffineria di dolore. Per non parlare della passione politica o della fede che in ogni tempo hanno consapevolmente separato più di quanto abbiano loro malgrado unito.
Se gli uomini fossero minimamente ragionevoli si asterrebbero dall’inutile della vita. E invece vediamo e viviamo vite affollate di aspettative, desideri, confusioni e delusioni, spesso senza trovare un senso o sperare di dipanarne i nodi in una via di uscita.
Poi un giorno ci imbattiamo in qualche cosa che crediamo abbastanza superfluo per la nostra vita impastata di necessario e inutile, magari un concerto, un libro o un film e accade che qualcuno che condivide l’esperienza ci dica che «è bellissimo, perché è semplice e la semplicità spiega e risolve sempre, in fondo…».
Ecco, non ce n’eravamo ancora accorti: ogni vita, la più meschina o la più brillante, riesce a morire per le ‘complicanze connesse all’intento di vivere’. A quel punto, prendersi una pausa e assistere a una vita osservata e raccontata dalle parole o dalle immagini, poco importa il mezzo, permette di riscoprire la nostra nella semplicità che ne tiene i fili e che a volte dimentichiamo di vedere.
Nell’inutile racconto dell’arte, le vite altrui diventano non solo travi di male da accusare e spezzare, ma pagliuzze di bene da imitare e regalare.
In effetti, senza poesia, ma anche senza musica e cinema e teatro si può vivere bene, non benissimo magari, ma certamente bene sì.
Utile alla vita è invece un lavoro e una casa, il cibo, un qualunque libretto di istruzioni per un qualunque aggeggio tecnologico da cui siamo circondati. In molti casi sono utili dei mezzi di trasporto, i vestiti, il denaro più di tutto.
Il resto, non solo l’arte, non è strettamente necessario e può essere addirittura un ostacolo: i sentimenti, per esempio, sono ingombranti, possono essere fraintesi o male interpretati, qualche volta bucano il cuore, diventano una raffineria di dolore. Per non parlare della passione politica o della fede che in ogni tempo hanno consapevolmente separato più di quanto abbiano loro malgrado unito.
Se gli uomini fossero minimamente ragionevoli si asterrebbero dall’inutile della vita. E invece vediamo e viviamo vite affollate di aspettative, desideri, confusioni e delusioni, spesso senza trovare un senso o sperare di dipanarne i nodi in una via di uscita.
Poi un giorno ci imbattiamo in qualche cosa che crediamo abbastanza superfluo per la nostra vita impastata di necessario e inutile, magari un concerto, un libro o un film e accade che qualcuno che condivide l’esperienza ci dica che «è bellissimo, perché è semplice e la semplicità spiega e risolve sempre, in fondo…».
Ecco, non ce n’eravamo ancora accorti: ogni vita, la più meschina o la più brillante, riesce a morire per le ‘complicanze connesse all’intento di vivere’. A quel punto, prendersi una pausa e assistere a una vita osservata e raccontata dalle parole o dalle immagini, poco importa il mezzo, permette di riscoprire la nostra nella semplicità che ne tiene i fili e che a volte dimentichiamo di vedere.
Nell’inutile racconto dell’arte, le vite altrui diventano non solo travi di male da accusare e spezzare, ma pagliuzze di bene da imitare e regalare.
domenica 12 agosto 2007
«Un’accusa permanente»
A Milano fino al 16 settembre è allestita una mostra dedicata a Fernando Botero, l’artista colombiano cantore della morbidezza, la cui complessità concettuale si risolve in una resa gioiosa, piena (è davvero il caso di dirlo) di luce, vita e memoria. Visitare i suoi quadri dà energia, regala sorrisi genuini e sconfigge la solitudine e il pregiudizio. Non è poco, di questi tempi, forse perché proprio di questo i tempi hanno bisogno.
Le donne di Botero sembrano mappamondi, quelle belle, colorate e girevoli sfere che un tempo campeggiavano frequenti sulle scrivanie di tanti studenti. Ripenso all’orgoglio che provavo quando confrontavo il mio bel mondo tondo, ingombrante e quindi ai miei occhi vivo, con quella figura oblunga, indiscutibilmente più seria e suggestiva di studio vincente, del planisfero che la mia amica teneva appeso a una parete del suo studio. Sotto ai miei oceani si sentiva la profondità del mare ed era una piacere vedere le Americhe ingrossarsi e assottigliarsi quasi a seguire le forme della terra e accorgersi al tatto che i Pirenei pungevano meno delle vicine Alpi.
Ecco, Botero non dipinge solo donne, ma anche fiumi, golfi e montagne e foreste nelle linee curve, nei nasi, nelle dita dalle unghie dipinte come fosse una neve che colora le cime più alte, nei capelli corvini di ancestrale memoria. Dipinge una geografia fisica della terra nelle forme relative di figure umane che solo per la loro imponenza richiamano l’assoluto e la storia inalterabile della vita, ma sprigionano tutta la transitorietà del quotidiano nei lavori degli artisti circensi, nei ritratti, negli abbracci degli amanti.
E quando gli uomini hanno oltraggiato il diritto e la dignità dei loro simili e attraverso di loro il diritto e la dignità della terra stessa, il linguaggio di Botero è diventato politico, proprio come quei mappamondi che se illuminati dall’interno si trasformavano da fisici in politici per agevolare lo studio anche degli scolari più refrattari alla comprensione. I soggetti diventano corpi violati e offesi, umiliati e percossi, carne e sangue della deriva della storia.
L’arte è «un’accusa permanente», ha detto Botero, «se mi sento come se mi avessero staccato la testa so che quella è poesia», aveva scritto E. Dickinson, se Guernica “è” la guerra, lo dobbiamo a Picasso.
Dunque le opere sui crimini di Abu Grahib diranno per sempre quel male politico che noi facilmente allontaniamo cambiando canale o girando le pagine del giornale. Anche Mantegna dipinse un povero Cristo umano, tutto piedi, trafitto di dolore sul letto di morte, ma accanto c’era ancora posto per la pietà nelle lacrime delle donne. I quadri su Abu Grahib sono forse il richiamo che la nuova storia non ha più voglia di piangere sui suoi morti.
Le donne di Botero sembrano mappamondi, quelle belle, colorate e girevoli sfere che un tempo campeggiavano frequenti sulle scrivanie di tanti studenti. Ripenso all’orgoglio che provavo quando confrontavo il mio bel mondo tondo, ingombrante e quindi ai miei occhi vivo, con quella figura oblunga, indiscutibilmente più seria e suggestiva di studio vincente, del planisfero che la mia amica teneva appeso a una parete del suo studio. Sotto ai miei oceani si sentiva la profondità del mare ed era una piacere vedere le Americhe ingrossarsi e assottigliarsi quasi a seguire le forme della terra e accorgersi al tatto che i Pirenei pungevano meno delle vicine Alpi.
Ecco, Botero non dipinge solo donne, ma anche fiumi, golfi e montagne e foreste nelle linee curve, nei nasi, nelle dita dalle unghie dipinte come fosse una neve che colora le cime più alte, nei capelli corvini di ancestrale memoria. Dipinge una geografia fisica della terra nelle forme relative di figure umane che solo per la loro imponenza richiamano l’assoluto e la storia inalterabile della vita, ma sprigionano tutta la transitorietà del quotidiano nei lavori degli artisti circensi, nei ritratti, negli abbracci degli amanti.
E quando gli uomini hanno oltraggiato il diritto e la dignità dei loro simili e attraverso di loro il diritto e la dignità della terra stessa, il linguaggio di Botero è diventato politico, proprio come quei mappamondi che se illuminati dall’interno si trasformavano da fisici in politici per agevolare lo studio anche degli scolari più refrattari alla comprensione. I soggetti diventano corpi violati e offesi, umiliati e percossi, carne e sangue della deriva della storia.
L’arte è «un’accusa permanente», ha detto Botero, «se mi sento come se mi avessero staccato la testa so che quella è poesia», aveva scritto E. Dickinson, se Guernica “è” la guerra, lo dobbiamo a Picasso.
Dunque le opere sui crimini di Abu Grahib diranno per sempre quel male politico che noi facilmente allontaniamo cambiando canale o girando le pagine del giornale. Anche Mantegna dipinse un povero Cristo umano, tutto piedi, trafitto di dolore sul letto di morte, ma accanto c’era ancora posto per la pietà nelle lacrime delle donne. I quadri su Abu Grahib sono forse il richiamo che la nuova storia non ha più voglia di piangere sui suoi morti.
martedì 7 agosto 2007
l'importanza di non capire tutto (1)
Paolo e Francesca non finirebbero all’Inferno
Renzo griderebbe al complotto contro don Abbondio
Anna K. ed Emma B. sarebbero ancora vive
Il padre di Zeno C. sarebbe in una casa di riposo
Renzo griderebbe al complotto contro don Abbondio
Anna K. ed Emma B. sarebbero ancora vive
Il padre di Zeno C. sarebbe in una casa di riposo
e quello di Gregor S. al cimitero
Cappuccetto rosso direbbe alla mamma: “vacci tu”,
Cappuccetto rosso direbbe alla mamma: “vacci tu”,
sbattendo la porta della camera
Ulisse scriverebbe di persona personalmente le poesie
Ulisse scriverebbe di persona personalmente le poesie
che lo riguardano
Giasone e Medea sceglierebbero il sesso protetto
Dorian G. direbbe a Oscar W.: “senza rancore,
Giasone e Medea sceglierebbero il sesso protetto
Dorian G. direbbe a Oscar W.: “senza rancore,
ma nel prossimo secolo è meglio”
Don Chisciotte si vanterebbe di non sapere leggere
Don Chisciotte si vanterebbe di non sapere leggere
né scrivere, ma di aver fatto i soldi lo stesso
Bartleby no.
Nessuno l’assumerebbe certo, ma anche in mezzo a una strada lui direbbe: I would prefer not to. E se invece la sorte lo baciasse e lo arricchisse suo malgrado, famoso e lusingato da giornali e televisioni guarderebbe tutto con occhio fermo per poi dire che, comunque e sempre, avrebbe preferenza di no. Perché no, davvero, tutto è preferibile, è importante che non si capisca.
Bartleby no.
Nessuno l’assumerebbe certo, ma anche in mezzo a una strada lui direbbe: I would prefer not to. E se invece la sorte lo baciasse e lo arricchisse suo malgrado, famoso e lusingato da giornali e televisioni guarderebbe tutto con occhio fermo per poi dire che, comunque e sempre, avrebbe preferenza di no. Perché no, davvero, tutto è preferibile, è importante che non si capisca.
giovedì 2 agosto 2007
grazie
Al numero 1 di viale libertà c’è una vecchia villa un tempo abitata – inventata? - da una altrettanto vecchia signora, minuta e silenziosa che amava osservare la gente e allevare galline. Non disdegnava i conigli ma sapeva solo cucinarli e da vivi non le sembravano molto interessanti. Ogni tanto ospitava amici e parenti, di solito vecchi e originali quanto lei. Per un certo periodo comparve una cugina di città, altrettanto piccola di statura ma senza uno spigolo in vista, generosa di parole e golosa come una bambina.
L’ ospite più frequente, però, quasi un secondo proprietario fu un anziano reduce, mite e buono. Come il cibo che sfama dopo lungo digiuno, come oggi quasi nessuno, come il bacio del ritorno. Non sembrava potesse esistere una persona così. Ma c’era e la sorte l’aveva portato lì. È lui, decise la vecchia signora, che continuerà la vita di questa casa quando non ci sarò più. E anche quando l’ultima gallina morì, la villa rimase vivace, anzi divenne ancora più aperta ai conoscenti e a semplici passanti, attratti dal grande giardino che prometteva ristoro d’estate e dal calore accogliente della cucina d’inverno.
Per anni ho frequentato la villa, ogni volta sorpresa dal bene che sprigionava.
Oggi la guardo dal viale, è in ordine, il tempo l’ha rispettata, anche se le porte sono sbarrate e nessuno dalla veranda saluta invitando per un caffè. Ma i platani e il noce continuano a respirare e il gelsomino inonda di profumo la primavera e il pollaio potrebbe accogliere da subito nuovi pulcini. Sono ancora lucide le targhe sui pilastri del cancello e continuano a proporre il nome della casa forse a invogliarne l’acquisto o almeno l’interesse.
Un po’ mia lo è già. Tutti i giorni ci passo, saluto il suo passato e immagino il futuro. Stasera ho anche brindato alla sua salute, con un bicchiere di bollicine che tintinnava sulle piastre di ottone, cin cin e lunga vita a te “Villa Cesarina”.
L’ ospite più frequente, però, quasi un secondo proprietario fu un anziano reduce, mite e buono. Come il cibo che sfama dopo lungo digiuno, come oggi quasi nessuno, come il bacio del ritorno. Non sembrava potesse esistere una persona così. Ma c’era e la sorte l’aveva portato lì. È lui, decise la vecchia signora, che continuerà la vita di questa casa quando non ci sarò più. E anche quando l’ultima gallina morì, la villa rimase vivace, anzi divenne ancora più aperta ai conoscenti e a semplici passanti, attratti dal grande giardino che prometteva ristoro d’estate e dal calore accogliente della cucina d’inverno.
Per anni ho frequentato la villa, ogni volta sorpresa dal bene che sprigionava.
Oggi la guardo dal viale, è in ordine, il tempo l’ha rispettata, anche se le porte sono sbarrate e nessuno dalla veranda saluta invitando per un caffè. Ma i platani e il noce continuano a respirare e il gelsomino inonda di profumo la primavera e il pollaio potrebbe accogliere da subito nuovi pulcini. Sono ancora lucide le targhe sui pilastri del cancello e continuano a proporre il nome della casa forse a invogliarne l’acquisto o almeno l’interesse.
Un po’ mia lo è già. Tutti i giorni ci passo, saluto il suo passato e immagino il futuro. Stasera ho anche brindato alla sua salute, con un bicchiere di bollicine che tintinnava sulle piastre di ottone, cin cin e lunga vita a te “Villa Cesarina”.